13 maggio 2015

Pranzo alle otto (George Cukor, 1933). Gli oggetti, lo sfondo 3/3

L’azione si svolge sulla superficie e personaggi, oggetti, eventi paiono galleggiare in una zona ristretta dove l’immagine è a fuoco mentre la profondità di campo si perde in un magma indistinto, per cui la distanza svanisce nello sfuocato e le cose si confondono , i dettagli svaniscono, le persone perdono consistenza; la loro esistenza, fino a poco prima fondamentale per il plot si esaurisce anche quando rimangono inquadrate per un attimo, ma ormai inessenziali alla dinamica del racconto. I film della sophisticated comedy trascurano la distanza, ciò che importa è focalizzare l’attenzione sulla superficie perché nel profondo la nebbia esaurisce ogni possibilità di redenzione (il cinema non affranca bensì sequestra). Questa perdita della nitidezza colpisce soprattutto gli oggetti, che devono pur rimanere in scena, mentre i personaggi o spariscono dietro una porta del fondale o escono fuori campo dalle quinte laterali. Nel film ovviamente, quando la scena cambia, gli attori si trovano all'istante nel fuori campo (come quando escono di scena nella stessa sequenza) ma rimangono sempre presenti nella mente dello spettatore. Sono ancora reali perché la loro immagine permane nella mente e agiscono, parlano, vivono oltre il nostro controllo. Il fuori campo rimane pur sempre parte essenziale della nostra vita e non ci stupiamo se il cinema riprende questa caratteristica dello sguardo. Sappiamo che Larry vive senza sosta il suo dramma anche quando la mdp riprende Carlotta che sgrida il suo cagnolino per la pipì liberata nel corridoio dello stesso albergo dove alloggiano Larry e Paola. Ma osservare i tendaggi, i tavoli, i modellini delle imbarcazioni, i quadri posizionati in uno sfondo evanescente e difficile da decifrare (che l’occhio non riuscirà mai a rendere nitido come nel mondo reale), senza nemmeno simulare uno sguardo naturale (nel senso che quando osservo un paesaggio gli oggetti a me vicini sono sfuocati), destabilizza il cosiddetto naturalismo del film. Gli oggetti in particolare si avvicinano alla superficie per l’uso che ne viene fatto: un telefono, una spazzola, una cornice. Quando invece sono abbandonati a se stessi, e la mdp si allontana, ecco che si squagliano, si assottigliano svanendo nell’indistinguibile. Senza la profondità di campo la recitazione diviene «[…] frammentata nei piani e contropiani», mentre i dialoghi devono rispettare «l’unicità dei campi sonori» (1). Eppure questa “frammentazione”,  oltre a rimodulare la recitazione (i movimenti continui dei personaggi con i raccordi degli sguardi) e i movimenti di macchina, soffermandosi sul dettaglio, ingrandisce a avvicina gli oggetti alla superficie come in una macrofotografia dove tutto il residuo è fuori fuoco. Questo contrasto tra oggetto nitido e ingrandito nel particolare e oggetto relegato nel magma dello sfuocato accentua la distanza dal naturalismo relegando il mondo a una immaginaria verosimiglianza che riflette l’arte e il pensiero del regista. Il cinema prende il sopravvento sul mondo determinando definitivamente una sua precisa e ineccepibile realtà, un suo mondo, con le sue regole e i suoi stilemi. Il mondo della pellicola è un altro mondo strutturato in modo da amplificare la verosimiglianza nel trascinare lo spettatore all’interno. Pertanto gli attori prendono il sopravvento sul personaggio; non è Larry Renault che osserviamo in scena ma Jonh Barrymore e così la grande attrice non è Carlotta Vance ma Marie Dressler . Lo star system si perfeziona e comincia il suo periodo migliore. Al cinema andiamo per veder recitare in Pranzo alle otto  la bellissima Jean Harlow  e l’affascinante Magde Evans di cui conosciamo già vita, morte e miracoli.

1. Edoardo Bruno, Pranzo alle otto, il Saggiatore, Milano 1994,  pag. 60

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