5 agosto 2013

To The Wonder (Terence Malick, 2012): Stereotipi e archetipi 2/2



Poiché To The Wonder tende a distaccare la narrazione, a indebolirla, con movimenti, sguardi,  posture che mirano lontano, “frasi” acusmatiche che ondeggiano nella colonna sonora, volti che si adombrano o si illuminano nel gesto, piroette, campi lunghi di città, paesaggi marini o agresti,  è possibile che il senso a sua volta aumenti di volume saltando tutti i dati intermedi, i fatti contingenti, assolutizzando l’evento, mostrando in altri termini l’archetipo primordiale che alberga sin dalla notte dei tempi nella nostra mente? Indebolire la narrazione non significa rimuovere il senso, ripudiare il racconto. Per Greimas ogni enunciato presuppone sempre un’enunciazione anche se non percepibile del tutto. L’enunciazione è sempre presente nell’enunciato anche se  a volte implicitamente. Eppure la mancata esplicitazione dell’enunciazione diventa ancora più significativa di quella palese, evidente, dei testi classici. Il disinnesco, la separazione tra enunciato e enunciazione, il débrayage(1), diventa enunciativo con discorso impersonale, senza dialoghi (le poche frasi dette non sono sufficienti a definire To The Wonder un film molto “parlato”), senza movimenti o posture canoniche; gli attori spesso voltano le spalle, camminano, i loro sguardi non sono raccordati, i paesaggi – in particolare Mont Saint-Michel – sono sì affascinanti ma vivono di vita propria, potrebbero anche non essere visti perché gli uomini non li vedono ma ne fanno parte, vi danzano dentro, si muovono all’interno. Ma allora chi è l’osservatore e qual è il punto di vista? Come si distribuisce il sapere ed esistono un sapere e una verità in fondo al tunnel (l’epilogo del film)? Neil è il focalizzatore, ci racconta una storia? Oppure è Marina? Qual è il senso profondo del film? La separazione? La perdita della fede? Il perdersi e il ritrovarsi? Qual è la funzione dei paesaggi? Troppe domande a cui, pur pensandoci a lungo, non saprei dare una risposta. Se da un lato il rischio di tanto cinema contemporaneo è di mostrare lo stereotipo (spesso ben recepito e compreso, perché connesso all’esperienza dello spettatore) i film di Malick sembrano vagare alla ricerca dell’archetipo. In effetti un percorso complicato e di dubbia efficacia ma senz’altro originale e pregno di stimoli per chi vede il cinema come esperienza e non solo intrattenimento. Estrarre l’archetipo dalla carne densa e vischiosa della storia, depurare il senso dalla cronaca per mostrarlo come unica storia riferibile, può risultare pratica di conoscenza. L’Ombra ad esempio, l’archetipo impersonato dai “cattivi” di turno (siano essi personaggi od eventi) potrebbe diventare il senso di tutti i significati conosciuti dalla razza umana dalla preistoria ad oggi? In To The Wonder appare d’improvviso sul volto di Marina già prima di incontrare l’amante. Allora viene da chiedersi: perché Marina tradisce Neil? C’è un motivo, l’ha tradita, l’ha trascurata, l’ha picchiata? Tuttavia l’Ombra non è un oggetto concreto e denso (pur essendo stata personificata nel cinema da innumerevoli personaggi e/o attanti: assassini, demoni, violenti, maniaci, guerrieri ecc.). L’Ombra non ha consistenza, si muove dal mondo all’anima e viceversa, penetra la carne e ne esce, vaga sull’onda portante di un’umanità depressa che ha bisogno del male per esorcizzare le proprie paure. Apparentemente non ci sono motivi per cui Marina debba tradire Neil perché Malick deve raccontare il senso, quello stesso senso di afflizione che ho provato nel vedere i balletti all’indietro di una donna che esprime voluttà, paura e rabbia in inquadrature ravvicinate. L’eroe, (forse Neil, forse Marina, forse lo stesso padre Quintana) attraversa i personaggi relegando gli altri nella nebbia.  L’eroe tramonta e risorge di sequenza in sequenza. Mentre padre Quintana porta il suo conforto agli emarginati e ai malati, intraprende il suo dialogo interiore con Cristo coinvolgendoci nella sua crisi. Questo dialogo evidenzia il suo Sé ossia il Mentore che è in lui, Dio stesso che lo  mette alla prova, e persino il Guardiano della Soglia, il suo Demone, che lo pone davanti alle sue contraddizioni,  alla sua crisi interiore, impronunciabile. Mentre vaga tra gli invitati a un matrimonio una fedele gli dice che pregherà per lui perché “così riceverà il dono della gioia”. Si aggira per le strade e nei luoghi di sofferenza roso dal suo bisogno di un Dio che non riesce a trovare (“Per quanto tempo ti nasconderai”, “fammi arrivare a te”). Lo cerca tra i miserrimi della terra, tra gli psicolabili, vagando di edificio in edificio, di strada in strada (“Ti cerco intensamente. La mia anima ha sete di te. Esausta. Sarai come un ruscello che si prosciuga?”). In un incontro con Neil dice allo stesso: «Devi lottare con te stesso. Devi lottare con la tua stessa… forza». Mentre si reca in casa di una malata, provenendo da una mensa per poveri di un Istituto di suore, prosegue il suo arrovellamento interiore, senza soste (“Dove mi stai portando? Insegnaci dove cercarti”). La sua voce off (sempre in spagnolo) procede mentre scorrono le seguenti inquadrature: Marina che passeggia lungo il fiume, dà del cibo alle oche; uno stagno;  lo stesso Padre Quintana che prima spinge un uomo in carrozzina, lo aiuta ad alzarsi, poi conforta e assiste, con la Bibbia in mano,  una vecchia negli ultimi istanti della sua vita; immagini di casette di un piano (“Cristo accompagnami. Cristo davanti a me. Cristo dietro di me. Cristo in me. Cristo sotto di me. Cristo sopra di me. Cristo alla mia destra. Cristo alla mia sinistra. Cristo nel cuore”). La paura di perdere quel che si ha, o peggio ancora, di perdere ciò che siamo. La fede, l’amore, la felicità, la sicurezza, la vita… Gli archetipi formano storie, sono la struttura portante, recondita, ma stimolante, di ogni storia. Apparentemente sembrano semplificare tanta narrativa, nel senso che migliaia, milioni di racconti sono riconducibili a poche essenziali funzioni. In realtà, prodotti di una scrittura arcaica, accompagnano l’uomo sin dalla notte dei tempi e riescono a modificarsi senza perdere la loro energia vitale trascinando lo sguardo dentro le immagini. L’archetipo affiora nel segno primordiale, un’incisione, un solco, un rilievo. La scrittura è un archetipo. Come afferma Derrida “[…] la scrittura non sarà mai la semplice «pittura della voce» (Voltaire).  Essa crea il senso, consegnandolo, affidandolo a una incisione, a un solco, a un rilievo, a una superficie che si vuole trasmissibile all’infinito. Non che lo si voglia sempre, non che lo si sia sempre voluto; e la scrittura, come origine della storicità pura, della pura tradizionalità, non è che il telos di una storia della scrittura la cui filosofia resterà sempre a venire”(2).Per usare una terminologia cara a Greimas, gli archetipi si servono del débrayage enunciativo per potenziare l’embrayage (3), con la sua capacità di creare l’illusione di una realtà dell’enunciazione che non è più afferrabile, ormai scomparsa per sempre. Questo ritorno all’enunciazione, o al suo fantasma, crea un’illusione di realtà impossibile da cogliere, ricomposta dalla mente. Il senso profondo di questi archetipi amplifica la forza dell’embrayage trascinando nell’assoluto piccole emozioni, deboli sensazioni, dolci amarezze di noiose abitudini, della mia vita quotidiana che non riesco a capire, ma che mi disturbano, mi conturbano, leggere nostalgie, delusioni reiterate, debolezze, sofferenze per un amore non corrisposto o l’amara constatazione di essere esclusi dal gruppo (che sia un salotto, un luogo di lavoro o altro), come sensazioni di profumi persi, scoprire d’improvviso un volto invecchiato o altro. Connettere il nostro piccolo mondo interiore alle radici più profonde della civiltà, ai suoi prodromi, alle origini, la Genesi dei nostri mostri: questa è la “meraviglia” di To the Wonder.

(1) cfr. Algirdas Julien Greimas - Joseph Courtés, Semiotica, Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Bruno Mondadori, Milano 2007
(2) Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990(2) p. 16
(3) Greimas – Courtés, cit.

Per una conoscenza generica dei concetti di débrayage ed embrayage  vedi la sezione “La semiotica generativa” su http://it.wikipedia.org/wiki/Enunciazione

2 commenti:

Anonimo ha detto...

C'è una profondità d'analisi non comune in questo articolo! Complimenti!

Luciano ha detto...

milonem. Ti ringrazio. Sei molto gentile. Ho visto velocemente (purtoppo per il poco tempo di cui dispongo in questo periodo) il tuo blog e mi sembra molto interessante e di grande qualità. Conto di tornare presto. Un saluto.

Scusami per il ritardo della risposta ma come vedi non riesco neppure ad aggiornare il mio blog.