31 marzo 2012

Pierrot le fou di Jean-Luc Godard(*): Lo spettro (parte seconda) 3/5

I rapporti fra i testi si hanno nella loro effettiva differenza, nello choc delle fratture, dell’annullamento (o tentativo) dell’azione-reazione. Non c’è illusione di unità, ma discontinuità dove la dissimmetria (citando Blanchot) è l’unico spazio percorribile (i luoghi deputati del film sono confusi, invalicabili, pseudo-tridimensionali), la distrazione l’unico tempo misurabile (ma la distrazione fa dimenticare che esiste un tempo da misurare) e l’interruzione unica parola pronunciabile (le frasi spezzate del diario e i discorsi frammentari fatti di citazioni e di frasi che non rimandano ad altre frasi che seguiranno in altre immagini). La discontinuità sta tutta nella fioritura di questo divenire, nell’apertura continua del buco che inghiotte e che si apre appunto come un fiore. Si apre nella fioritura infinita dei differenti, dei pezzi scollati che non sono il tutto dell’immagine caro ai “puntillisti”, ma ciò che sta al di fuori, ciò che sta oltre i punti, oltre l’immagine apparente ricostruita dalla nostra mente. In questo fiorire ci sono rapporti che si fondono per differenza: i corpi abbracciati di Ferdinand e Marianne eiaculati dalla terra, la rivoltella e le forbici che si allineano nella morte e ancora le immagini d’autore, i romanzi letti o visti, Baudelaire e Van Gogh, Picasso e il fumetto,   Velázquez e Warhol. Questi rapporti si fondono soltanto nell’eternità, tra cielo e mare, nel sogno dell’uomo, nella sua credenza. Credere a qualcosa che coordini, credere ad un orologio, un meccanismo che disponga, che organizzi. E in questo senso è possibile sopportare le differenze di un film: rapportandosi al film e rapportando il film a noi stessi e noi e il film insieme rapportandoci al mondo che ci contiene.
Andiamo al cinema per trovare noi stessi, per incarnarci in quelle forme fluorescenti che sciamano sullo schermo, in quei serpenti della Medusa che ci trasformano in pietra. Ma si tratta di credere anche ad un vascello che naviga sul guscio di una tartaruga immobile (come nella Pelle di zigrino di Balzac); credere a questa differenza a questi rapporti inconciliabili, discontinui, frammentari. L’amore ad esempio non si sprigiona del tutto dalla storia; c’è un amore, ma questo amore è tutto da inventare: è una frattura, una distanza inconciliabile, che non si colma mai, un inseguimento continuo che si dissocia da altre fratture, che si distanzia da altre distanze. Attraversa l’incontro tra Ferdinand e Marianne, proseguendo in auto e nei dialoghi (frasi anch’esse fratturate), fin negli idilli di Ferdinand per Virginie o di Pierrot per Yvonne, nella gelosia (ma anche la gelosia è un segno che prende le distanze) di Ferdinand, nella passione di Cascade  (3) per le sue prostitute o nel rapporto tutto sessuale del-l’americano-Ferdinand (in Pierrot le fou), soldato che sfoga la sua rabbia sulla vietnamita-Marianne. L’amore non va visto come evento che attraversa in orizzontale vari punti e incontra gli oggetti posti sulla verticale; non va misurato con la prospettiva quattrocentesca che simula il punto di vista “perfetto” dell’uomo.
Si tratta di sconcatenare generi, situazioni, eventi che non avvengono, che non si situano, ma che si differenziano, si urtano, si dissociano. Da ogni immagine nasce un’altra immagine, non un’immagine che segue un’altra immagine, ma un’immagine e un’immagine. Così fin nel profondo del pozzo, finché l’unico senso dello spettatore non sia una credenza nel mondo ma uno smarrimento, un dolore insopportabile per un mondo che è troppo fuori, troppo lontano perché ci contiene e non possiamo vederlo. È come quando guardiamo il cielo stellato dal lungomare di una sera estiva: non possiamo vedere la nostra galassia dall’esterno (perché ci siamo dentro) e neppure dall’interno (perché pur essendoci dentro riusciamo soltanto ad immaginarcela esterna). Cosa vediamo allora? Forse l’impossibilità di vedere oppure l’esterno e l’interno contemporaneamente, tanto distanti quanti intimi dentro di noi. Vediamo il divenire «[…] allorché esso “si scandisce, si intima”, si interrompe e, in questa interruzione, non si continua ma si dis-continua […]».(4) Allora non c’è una verità da raccontare, un “rispecchiamento” da verificare (György Lukács), una verosimiglianza che è una credenza in un mondo.  C’è l’infinito dell’interpretazione e un atto di  scrittura che è fatta e ci parla di queste lacerazioni, che ci parla del senso. Il senso che si forma in noi per la prima e per l’ultima volta, dove la prima volta è sempre l’ultima, perché il senso è unico,  irripetibile  nell’attimo,  sta lì,  rinchiuso in un universo istantaneo,  ma per un istante. Sappiamo che è nel momento, che è in quell’immagine, oltre le nostre possibilità, sappiamo che è dentro tutto ciò che non può essere detto, che non può essere contenuto dall’immagine. E quando tentiamo di imbrigliarlo, già si è trasformato sotto i nostri occhi; la mente si rassegna a seguirne la scia, il suo inutile ectoplasma, per costruire un tutto coordinato e logico, coerente e appagante. Lo spettro che impedisce di trasformarci  in pietra è dunque lo schermo stesso?  L’ectoplasma,  la scia del senso inafferrabile, che si rinnova attimo dopo attimo, immagine dopo immagine. Allora non è la durezza del corpo che tocchiamo, non è il mondo che comprendiamo, è soltanto la sua proiezione, la durata del corpo, un surrogato di mondo. Non vedremo mai il fondo del pozzo che è dentro l’immagine, e per cercarlo ce lo immaginiamo dentro un’altra immagine.
C’è soltanto il linguaggio allora, visto che il mondo è troppo distante e troppo interiore per essere interpretato? C’è soltanto il linguaggio e c’è soltanto l’interpretazione?
Questi rapporti intertestuali servono a misurare la potenza del tempo, ossia servono a evidenziare l’impossibilità della nostra coscienza di esperire un tempo se non in maniera indiretta (cinema classico), servono a mostrare il non mostrabile: un tempo di cui siamo contenuto e contenenti, che non attraversiamo con la nostra coscienza secondo le dimensioni usuali. Altre forze sprigionano questa potenza. È come se vivessimo sulle due dimensioni di un foglio di carta e cercassimo di capire quale forza abbia potuto “creare” quel foro che improvvisamente è apparso, bucando il foglio. Privati della terza dimensione non possiamo capire il gesto semplice di una matita troppo appuntita che ha bucato il foglio. Privati della capacità di vedere, ci limitiamo ad osservare con lo scudo l’immagine della Medusa. Forse gli uomini di pietra, che hanno affrontato lo sguardo diretto, sono gli unici vedenti: pietrificati dall’orrore, accecati dal bagliore dello schermo bianco che ha aperto la sua palpebra. Perseo non ha sconfitto la Medusa. La Medusa si è decapitata. Perseo col suo specchio vedeva ciò che voleva vedere,  non vedeva il buco nero che fagocita la luce,  ma lo scorrimento prospettico della luce, vedeva i piani, le linee, l’illusione della tridimensionalità. Lo sguardo della Medusa vede invece la quadridimensionalità, entra dentro il buco dove è imprigionata la luce, si lascia accecare dal nero assoluto, assorbente. Lasciarsi assorbire dall’immagine invece che lasciarsi riflettere. La citazione aiuta anche a smontare questa credenza: il senso non si spiega mai del tutto (crediamo solo nella sua scia luminosa), perché il suo corpo sopravvive dentro il buco, assorbito dal nero profondo della luce, che è il suo mistero.


(3) Ferdinand, Virginie sono personaggi del romanzo di Louis-Ferdinand Céline: Guignol’s band, mentre Pierrot e Yvonne sono personaggi del romanzo di Raymond Queneau: Pierrot amico mio.
(4) M. Blanchot, L’infinito intrattenimento (1969), Torino, Einaudi 1977, p. 221.

(*) Luciano Orlandini, Pierrot le fou di Jean-Luc Godard, in Annali del Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo, Università Firenze, Anno II, 2001, pp. 141-150.

Nessun commento: