18 ottobre 2011

Drive (Nicolas Winding Refn, 2011)

Drive è l’altra parte dello specchio, il riflesso di tante trame stereotipate consegnateci da action movie con eroi solitari, duri ma “buoni” che amano le cose semplici, che sono diventati assassini malgrado loro e che “risolvono” sempre (o quasi) il caso. L’eroe non è un angelo decaduto, un cacciatore di taglie tenebroso dal passato avvolto nel mistero (immancabilmente rivelato nell’epilogo), un duro che nasconde sotto la scorza una polpa buona e gustosa. Mi rendo conto che non è semplice offrire un prodotto senza il marchio DOCG di un cinema che riesce a vendere bene. Ancora più complesso coniugare un plot “atipico” con una regia che organizza le inquadrature in modo da non cadere nel solito look di certo cinema seriale. Innanzi tutto l’eroe presenta un guscio tenero o meglio una maschera per gli altri indossata per nascondere il proprio inferno, un’apparenza rassicurante ma allo stesso tempo sconcertante (sin dall’incipit viene chiarito chi sia veramente il pilota) e una parte interna più dura non gustabile (la freddezza e il cinismo con cui uccide i suoi antagonisti). Niente e nessuno potrà cambiare il suo status: lui è così e per questo tornerà nello stesso indefinito limbo da cui è venuto. Di solito l’eroe viene educato e trasformato da una donna spesso bellissima, mentre in Drive la donna non è l’oggetto del desiderio. Ciò che muove la storia, che manda avanti il piano narrativo è la famiglia: Standard che esce dal carcere, sua moglie Irene e il figlio. La stessa famiglia che per un eroe “americano” non ha poi molta importanza ma ne ha per un eroe che definirei europeizzato. La famiglia che forse il nostro autista non ha mai avuto o forse è già tramontata in un passato imperscrutabile. Il bacio stesso dato a Irene nell’ascensore, oltre a stigmatizzare la classica notte d’amore (che nel film non c’è), è soprattutto un indice, un avvertimento. Il pilota ha visto la pistola sotto la giacca del gorilla incaricato di ucciderlo e il senso di quel bacio congelato nel tempo, nell’eterna attesa di sferrare il colpo mortale allo scagnozzo per difendere se stesso e Irene, è il limite massimo che può offrirci un albero ormai avvizzito, forse il sogno di un’epoca eroica in cui i baci riempivano lo schermo mentre adesso sono solo orpelli, spesso inutili e impropriamente mostrati, di un cinema dalla corteccia soffice ma dal legno buono solo per ravvivare il falò di un camino. Il bacio ci racconta l’impossibilità di accostare amore a violenza, due aspetti del mondo che possono essere evidenziati nelle loro rispettive dimensioni: la velocità della violenza che aiuta a sperare di uscire indenni da uno scontro con una persona armata e il ralenti di una carezza o di un amore (ma il bacio rubato e dilatato dal ralenti è diegeticamente più veloce della “morte in azione”). Anche il sangue perde la sua funzione portante assumendo valenze ulteriori: relegato spesso in un fuori campo o evidenziato come icona della violenza (il volto insanguinato del pilota) lascia al sonoro o alla “luce” il compito di “mostrare” l’orrore dell’omicidio, il momento in cui il nostro a-eroe sfoga gli istinti più bassi; non è solo sangue ma un liquido rosso che sottolinea la potenza dell’immagine anche vista in sé come pittura e simbolo capace di “mettere in moto” la memoria, per non dimenticare mai. La violenza d’altronde è sempre presente anche quando sembra in parte occultata (il sangue che emerge dai riflessi di uno specchio nel bagno o mostrato per un attimo come nell’omicidio del killer infilzato sopra il wc) o allontanata nella distanza di un campo lungo (l’omicidio per annegamento tra le onde sulla battigia percorsa dalla luce del faro), oppure vista sia attraverso ombre cinesi che ci riportano alle origini remote del cinema, come per allontanare ancora il momento della morte nella distanza temporale (le ombre sull’asfalto dei due uomini che si accoltellano a vicenda), sia tramite la scelta di relegarla nel “fuori” (i calci in testa al killer nell’ascensore). Sembra a momenti di vedere (tenendo conto dell’abisso sia temporale che culturale che separa i due film) Travis Bickle (1) nel momento in cui tenta vanamente di uccidere durante un comizio il senatore Palantine e in seguito di salvare Iris Steensma, una ragazzina di dodici anni e mezzo, da una banda di magnaccia nella memorabile sparatoria dell’epilogo. Il taxi driver e il drive(r) in fondo sono e saranno sempre due uomini soli che non hanno niente da chiedere a nessuno. Possono solo annichilirsi, annullarsi nell’anonimato. Mi piace però pensare a un ipotetico e improbabile dialogo tra i due:
DRIVE(R): «Qualunque cosa accada in quei cinque minuti ci penso io […] ma qualunque cosa accada un minuto prima e un minuto dopo, te la cavi da solo».
TRAVIS: «Ma dici a me? Ma dici a me? Ma dici a me? Ehi, con chi stai parlando? Dici a me? Non ci sono che io qui».

(1) Martin Scorsese, Taxi Driver (1976)

8 commenti:

Ivan Fedorovic ha detto...

era da un po' che non passavo da queste parti, è sempre un piacere leggere queste recensioni....
quei lampi di nulla che ogni tanto si intravedono negli occhi del protagonista non sono certamente consoni ad eroi alla segal (mio idolo tra l'altro, ehehe)....

Luigi87 ha detto...

Ottima recensione. A me il film è piaciuto e anch'io ho scritto una recensione sul mio blog:
letteraturaecinema.blogspot.com

ciao ciao

Ismaele ha detto...

davvero un bel film, Driver è lento, tranquillo ed esplosivo, Irene un angelo che mi sembra una nuova Bess (Emily Watson protagonista de "Le onde del destino").
verissimo quello che dici, Driver è un uomo solo, con un passato che non conosciamo.

Luciano ha detto...

@Ivan Fedorovic. E' per me un piacere "rivederti". Anch'io purtoppo passo raramente dalle tue parti. Spero di rimediare il prima possibile. Penso anch'io di no, niente a che fare con Segal (allora avrai apprezzato Machete).
Grazie per la visita^^
A presto.

Luciano ha detto...

@Luigi87. Grazie Luigi. Ti ho linkato e non vedo l'ora di visitare il tuo blog. A presto^^

Luciano ha detto...

@Ismaele. La prova di Emily Watson ne Le onde del destino è stata magistrale. La Mulligan in effetti mi sembra sulla giusta strada. Per adesso un'ottima attrice. Infatti penso che la solitudine di quest'uomo (di cui non conosciamo neppure un pensiero o un'opinione) sia la vera protagonista del film.

Anonimo ha detto...

Bello il parallelismo con Travis Bickle e interessantissima la simbologia del sangue.

Ale55andra

Luciano ha detto...

@Ale55andra. Ti ringrazio. Il parallelismo con Travis era nelle cose. E' stato sufficiente vedere il film in quanto Taxi Driver è una di quelle opere che ormai fa parte del mio dna. Un saluto^^