9 ottobre 2011

Carnage (Roman Polanski, 2011)

Come nell’Angelo sterminatore di Bunuel (1) i personaggi sostano in un’unica sala mentre una potenza irresistibile impedisce loro di uscire. Una densa forza gravitazionale li tiene legati al soggiorno dotato di una massa considerevole da cui non è possibile fuggire senza una rilevante energia cinetica. Nonostante gli attori “ruotino” attorno alla parte centrale della sala (mentre la mdp si limita a registrare con vari campi il moto di rivoluzione) o le inquadrature talvolta mostrino un “fuori” ineluttabile ma distante come le due immagini dei figli nel parco, un chiasmo incipit-epilogo, due sipari che impacchettano l’opera introducendo (e congedando poi) lo spettatore sul palco arredato di un atto unico, la forza che li inchioda nella sala potrebbe essere facilmente spezzata; basterebbe ai Cowan entrare nell’ascensore e il dramma sarebbe interrotto, le forze coesive dissolte, la storia lacerata. Il soggiorno è un po’ il divano di Freud, luogo in cui ognuno sente il bisogno di liberare pulsioni troppo a lungo chiuse in un cassettino custodito dell’es. Un banale motivo (non tanto per via del bisogno di proteggere e giustificare sempre e comunque la carne della propria carne) segna l’abbrivo della performance. I quattro protagonisti seguono pertanto una sorta di terapia di gruppo che li conduce a comportamenti liberatori lasciando uscire dal proprio corpo (oltre ai fluidi e alle grida) una sorta di “urlo” munchiano (follia o disperazione? "Crudeltà e splendore.” e “Caos. Equilibrio.” dicono Nancy e Penelope sfogliando un libro su Bacon). Queste “premesse” sono molto interessanti perché Polanski mette in campo una serie di relazioni che definirei proporzionali tese a giustificare l’intera operazione: la terapia è anche il momento della registrazione, i quattro attori stanno al regista come le due coppie stanno allo psichiatra e come nella fiction lo psichiatra non è presente così il regista non è visibile. Altro aspetto che impedisce allo spazio di espandersi nel fuori è l’opera teatrale. L’atto unico con unica chiusura di sipario non può liberare spazi “ulteriori”. Già il pianerottolo, luogo di confine, indebolisce la visione e mette a rischio la pièce (mentre il bagno è una falsa via di fuga), ma la maestria di un regista consumato qual è Polanski utilizza questi momenti di rischio per dare la sensazione di uno strappo che non avverrà mai. Lo spettatore si sente di conseguenza ricacciato nel plot quasi desiderando che il massacro abbia termine, “obbligato” a vedere come le persone possano farsi del male o desiderino vincere una battaglia già persa in partenza. Il film non è solo teatro filmato: è anche questo (e che ottimo teatro!) ed è anche trascinare il teatro all’interno del set. Riprendere i personaggi non è solo avvicinare lo sguardo di uno spettatore salito sul palco per osservare le espressioni degli attori, è soprattutto raccontare e recuperare il piacere di girare un film nel proprio spazio originale (teatro di posa), presentando il set e i suoi arredi ad un pubblico da tempo abituato a volare in alto o addentrarsi nei meandri degli eventi con lo sguardo di un dio. Qui al contrario si recupera lo sguardo limitato di un uomo e la possibilità di scoprire i sottili rapporti tra gli esistenti e i loro oggetti. Il meccanismo segue il desiderio di “uscire”, implica la pazienza di rientrare nel nucleo narrativo della recitazione attirando satelliti in orbita costante (i quattro personaggi) che interagiscono con i loro orpelli o protuberanze: rassicuranti coperte di Linus che danno lustro a un personaggio (il cellulare di Alan, i libri d’arte di Penelope, i cosmetici di Nancy e il whisky-phon di Michael). L’oggetto in questo caso determina un modo di essere, o meglio, amplifica lo status emotivo-sociale del personaggio fino a rappresentarlo (se non nell’incipit perlomeno durante lo splendido spannung). Quando l’oggetto viene depotenziato con esso se ne va l’artificio che offusca e nasconde la violenza intrinseca lasciando emergere alla superficie le pulsioni più recondite, poco prima soffocate e controllate dall’esigenza di un riconoscimento sociale (maschera). Il teatro toglie la maschera alle maschere, mostrando il carattere e la passione. D’altronde come non apprezzare i momenti della massima tensione drammatica di ogni personaggio quando ognuno degli esistenti lascia fuoriuscire la propria piccola quotidiana violenza? Penelope Longstreet quando percuote il marito, Alan Cowan quando si accascia sul pavimento perché con la distruzione del cellulare vede demolito tutto un mondo a cui si era aggrappato, Nancy Cowan quando si mette a piangere per le sue scatoline di maquillage cadute sul pavimento. In queste quattro mura respira un mondo.


(1) Il film è tratto dall’opera teatrale Il Dio del massacro di Yasmina Reza e in entrambi i “titoli” sono indicati un massacro e un’entità superiore.

12 commenti:

Noodles ha detto...

Film bellissimo, polanskiano fino al midollo (proprio in relazione a quella claustrofobia di cui anche tu parli e che è prima di tutto spaziale, cinematografica), come se l'autore fosse tornato alle sue origini (penso a Repulsion, ma anche all'Inquilino del terzo piano).

Luciano ha detto...

@Noodles. In effetti ho pensato anch'io all'Inquilino del terzo piano. Sembra quasi che la sala di Carnage sia l'anticamera del palazzo dell'Inquilino e l'urlo dell'epilogo di Trelkovski, che chiude il cerchio del film di Polanski, riassume bene Carnage perché sin della prime frasi "gentili" dell'incipit scorgiamo già la "carneficina".

Luigi87 ha detto...

ciao, ti ho aggiunto tra l'elenco dei blog che seguo. se ti va di fare lo stesso, inserendomi nell'elenco blog cinema, il mio indirizzo è questo:
letteraturaecinema.blogspot.com

ciao e complimenti per il blog

PS: ho visto anche io il film e mi è piaciuto. ho scritto anche una recensione sul mio blog.

Christian ha detto...

Interessante il parallelo che fai con "L'angelo sterminatore"! Non ci avevo pensato ma mi sembra davvero un paragone azzeccato, anche per come le buone maniere borghesi si allentino progressivamente e sfocino nei litigi e nell'anarchia.

Luciano ha detto...

@Luigi87. Ti ringrazio^^ Ho già provveduto a ricambaire il link. Spero di oter passare a ricambiare la visita il prima possibile e leggere la tua recensione.

Luciano ha detto...

@Christian. Mi è venuto in mente L'angelo sterminatore per via del titolo della commedia che è molto simile, poi le situazioni sono paragonabili soprattuto per quella "forza" misteriosa che impone di restare per farsi del male. Un film molto interessante.

Ismaele ha detto...

"In queste quattro mura respira un mondo", dici; aggiungerei che ha l'aspetto di un mondo al tramonto

Luciano ha detto...

@Ismaele. Altro che! Aggiungerei che quel mondo è ormai avvolto nelle tenebre e interessante da analizzare e conoscere ;)

cinemaleo ha detto...

Una formidabile "terapia di gruppo" con un cast che fa scintille

BeR ha detto...

Ha ragione Vincenzo Cerami quando scrive che i 4 si vomitano addosso soltanto cazzate; è un gioco pesante sul luogo comune e sul suo rovesciamento. Direi che tutto il film è infarcito di «osceno nichilismo» (espressione con cui si riempie la bocca Jodie Foster). È un circolo vizioso, il film potrebbe andare avanti all'infinito, non si raggiunge nessuna verità su quei 4 che si parlano addosso (o almeno nessuna verità che già non si intuisca nei primi 20 minuti di film). I 4 si dicono tutto ed il contrario di tutto, con discorsi tesi a demolire se stessi ed il politicamente corretto (ancora a questo livello? ma che siamo, negli anni '80?). Non vedo l'aspetto terapeutico-curativo nell'ostentazione narcisistica del proprio cinismo.

Luciano ha detto...

@cinemaleo. Sì, una performance memorabile .Quattro grandissimi attori. Chapeau.

Luciano ha detto...

@BeR. Osservazioni molto interessanti. Purtroppo non ho avuto il piacere di leggere la critica di Cerami (ma non ho capito se la sua è una critica al lavoro teatrale, al plot o un elogio del dramma), ma ritengo comunque che la terapia non implichi sempre una guarigione (mi riferisco all’opera d’arte e non alle esperienze personali). Intendo la “cura” più come una performance, il piacere (e forse il bisogno) di portare sulla scena magari anche quelle “cazzate” che “ infestano” il proprio animo per liberare la propria energia creativa. Personalmente vedo più la performance come una forma di Playback Theatre, un’improvvisazione (nella fiction del film ovviamente) per cui i personaggi guardano se stessi (magari, perché no?) all’infinito, cercando di dare un senso alla loro disperazione. La terapia in questo caso potrebbe essere il teatro stesso (e quindi anche il cinema), il loro stesso porsi sulla scena per interagire con l’altro. Già, l’Altro, questo misterioso sconosciuto con cui è così difficile creare un rapporto senza indossarne i panni. Grazie per la visita e per il tuo fecondo intervento.