29 marzo 2011

Easy Girl (Will Gluck, 2010)

Nel momento in cui Olive decide di cucirsi la famigerata lettera sugli abiti, non fa altro che trasferire nel suo mondo arcaiche usanze per fortuna abbandonate in quanto norme di legge obsolete e inaccettabili. La sua “A” scarlatta ribadisce l’esistenza dei frammenti di un’America puritana del XVII sec.(1) giunti sino ai nostri giorni, poiché i pettegolezzi viaggiano velocemente oltrepassando spazio e tempo. In effetti anche lo spazio è solo apparentemente quello di un High School americana, anche se popolato da personaggi non molto dissimili da quelli di tanti altri istituti descritti in molti film di genere made in USA. I corridoi della scuola, gli armadietti, i porticati e i piazzali sono luoghi animati da studenti informati del nuovo status acquisito da Olive. E non ha importanza quale sia la verità, perché ciò che conta non è, per quanto riguarda l’omologazione, il fatto in sé, ma il racconto. La menzogna obbliga il bugiardo a organizzare un mondo coerente e verosimile che sia in grado di non discostarsi troppo dai criteri e dalle regole dettate dall’omologazione culturale. Organizzare un mondo fittizio, introdurlo davanti alla “visione” di un pubblico che “deve” credere in quel mondo, al fine di ottenere un risultato positivo (successo), implica capacità notevoli di organizzazione e creatività. Olive e i suoi amici (coloro che le propongono di stabilire un patto) diventano “attori” che si muovono in una sorta di “realtà immersiva” (2). È un po’ come trovarsi sulla scena del crimine, uno spazio in cui si devono cercare gli indizi per ricostruire le modalità del reato. L’omologazione non è quindi un universo coeso come nel romanzo di Hawthorne (3) ma si dirama in una serie di rivoli di ogni tipo che non rappresentano una diversificazione culturale, perché in fondo confluiscono tutti nello stesso fiume. Non a caso Rhiannon e Marianne (due esempi di differenti modi di vedere la vita) si troveranno dalla stessa parte, pronte a giudicare il comportamento di Olive irrispettoso del comune senso del pudore. Se Marianne rappresenta (volutamente in maniera grottesca) l’eccesso del bigottismo puritano, Rhiannon (cinematograficamente parlando) è la tipica ragazza d’oggi, con i desideri, le pulsioni e la voglia di trasgredire. Eppure quando nell’epilogo i due mondi si fondono nel giudicare gli “eccessi” di Olive, ci rendiamo conto quanta poca distanza scorra tra il mondo descritto da Hawthorne e le dicerie di una “moderna” Higth School americana del ventunesimo secolo. Il film, oltre a essere una commedia interessante proprio perché evita i luoghi comuni del genere, acquista valore nel cucire con il filo degli avvenimenti quotidiani una storia “dimenticata” (e pertanto studiata a scuola e che Olive mostra al Professore di conoscere bene). La fiction organizzata da Olive e dai ragazzi che desiderano “salire” la scala della “considerazione scolastica” (non secchione ma playboy) diventa il nucleo narrativo fondamentale per lo sviluppo dell’intreccio, costruisce i presupposti per denunciare quanto sia fragile e pericoloso attenersi ai pregiudizi e alla credenza nelle notizie amplificate dalle apparenze. Eppure l’aspetto più interessante dell’opera non è la descrizione di un mondo dove contano le apparenze e dove i pettegolezzi sono all’ordine del giorno, un mondo in cui per farti notare devi mentire confessando anche azioni non consone al comune senso del pudore. La qualità di Easy A scorre tutta nell’idea di mostrare quanto i giudizi più o meno moraleggianti (alcuni amici più liberali avrebbero anche potuto prendere le parti di Olive) scaturiscano da una “ricostruzione” del reale che sia efficiente e “logica”, in cui sia possibile tessere delle storie funzionali e coerenti. Fin quando Olive decide di agire seguendo la medesima direzione che ha voluto presentare allo sguardo della comunità degli studenti (mostrando un corpo coeso con le aspettative dell’omologazione) non suscita alcun interesse negli altri (l’incubo americano dell’invisibilità) in quanto incapace di presentare un discorso intelligibile e interessante. Easy A è l’esaltazione della fiction che presuppone la capacità di sostenere la menzogna (propinandola per verità) con una buona sceneggiatura (Olive che va al letto con alcuni ragazzi) e una buona recitazione (il finto amplesso di Olive e Brandon alla festa in casa di una studentessa). Il bugiardo per essere tale deve costruire mondi verosimili ma falsi, deve essere un artista di intrecci (scrittore, sceneggiatore, regista, ecc.). La comunità crede pertanto al racconto, non alla realtà e giudica la rappresentazione con maggiore enfasi della noiosa vita di Olive (che trascorre tutta sola un intero weekend a casa). La menzogna non si manifesta tanto (o solamente) nel creare uno scenario verosimile (Olive è una puttana) quanto nel garantire un surplus di credibilità, di convincere badando a mostrare una compattezza di verità che solo il Falso riesce a garantire, come pure nello sviscerare un piano narrativo che (persino nelle autobiografie) restituisca il senso di un percorso prima organizzato e poi seguito. Il bugiardo è artista in quanto riesce a mantenere in piedi un mondo con coerenza, logica e forza espressiva capace di infondere emozione e passione nell’interlocutore. Il bugiardo è capace di mostrare qualcosa che potrebbe sfuggire al nostro sguardo, ossia la parentela tra bugia e seduzione. (4) Per essere tutto questo bisogna costruire eventi (mostrarsi col ragazzo), essere coerenti (una storia deve avere una sua struttura) e soprattutto dire vere bugie. Il film è molto interessante in quanto scardina i cliché del genere anche se purtroppo nell’epilogo si indebolisce cercando di ripristinare i dati di partenza tramite la rivelazione della verità di Olive nel momento in cui, stanca di mantenere la sua storia fittizia e di essere emarginata dai compagni di classe, rivela alla webcam di essere l’artefice di un inganno, fuggendo di conseguenza con Todd, unica persona rimasta per propria scelta ai margini dello spettacolo. Forse sarebbe stato preferibile sospendere l’arrivo della verità relegandola nel limbo del conformismo in quanto valore manipolabile (ad esempio se Olive avesse copulato con i ragazzi sarebbe stata un’altra verità?). Pertanto con la loro “unione” (peraltro indicata come epilogo sin dall’incipit) il film si squaglia davanti al romanzo limitandosi a collegare la denuncia del puritanesimo del XVII secolo, che condannava le adultere a portare per punizione il marchio infamante della loro colpa, alla denuncia del pettegolezzo che condanna ogni singolo a essere rappresentato da una maschera riconoscibile da tutti senza possibilità di cambiamento pena il pubblico ludibrio. La lettera scarlatta portata da Olive diventa quindi il logo di una denuncia, non il marchio di un’onta. Se ciò che per la donna è vergogna mentre per gli uomini è vanto, se ciò che gli altri si aspettano da te non è esattamente quello che desideri, se il puritanesimo bigotto è in fondo il prodotto del pettegolezzo che viaggia alla velocità della luce, la “ragazza-a” è solo in parte una novella Hester Prynne: entrambe rappresentano la libertà della mente rispetto ai luoghi comuni dell’omologazione culturale, ma a Olive manca la passione dell’adultera.


(1) Temporale (XVII sec.) ma anche spaziale perché l’indipendenza, le libertà e le pari opportunità per la donna sono negate ancora in molti paesi e in altri sono continuamente violate o ipocritamente non confermate nei fatti.
(2) L’UACV (Unità per l’analisi del crimine violento) è una struttura della Polizia Scientifica che utilizza ricostruzioni tridimensionali (realtà immersiva) acquisite con scanner laser 3D per creare più modelli 3D relativi alla scena del crimine in grado di essere rivisitati e modificati dall’investigatore.
(3) Hawthorne, La lettera scarlatta (1850)
(4) “Se Goldoni non lo avesse umiliato e non lo avesse a tratti piegato a una sorta di infamante minorità, Lelio potrebbe sembrare un eroe eponimo della bugia. Anche così è in grado di sovrastare i propri predecessori (Dorante e don Garcia) e di mostrarci qualcosa che finora ci era sfuggito: la parentela stretta tra la bugia e la seduzione, alle cui spalle si profila l’ombra notturna e ansiosa del narcisismo. Quale seduttore potrebbe essere sincero? E nel mentire non c’è forse un desiderio – come dice Lelio in assoluta sincerità – di procurare un piacere, di riscattare una realtà troppo piatta e ovvia e priva di invenzione e di spirito? [..]” Mario Lavagetto, La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Einaudi, Torino 1992, pp.96-97. In questo volume Lavagetto nel capitolo “Altri bugiardi” (pp.93-97) si sofferma sulla commedia di Carlo Goldoni Il bugiardo

(1750).

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