3 giugno 2015

La peau de chagrin (Honoré de Balzac, 1831): 5/5 Il sapere (savoir) comprende il vedere (voir)

Quando l’antiquario prospetta a Raphaël la scelta tra Volontà e Conoscenza, tra il talismano e il quadro di Raffaello, non fa alto che proporre due tipi differenti di vita nell’eccesso: il Volere che brucia (e anche il Potere che consuma) contrapposto al Sapere che lascia l’organismo in un perpetuo stato di calma. Eppure, dice l’antiquario, il sapere è godere intuendo; di un possesso materiale rimane soltanto un’idea, mentre con la conoscenza è possibile imprimere tutte le realtà nel pensiero. «L’eccesso, dunque – dice Peter Brooks – è necessario per accedere all’essenza e alla verità, a quanto viene tenuto nascosto dal sipario che gli uomini comunemente chiamano ‘realtà’». Bisogna dunque mettere alla luce i macchinari che stanno dietro le quinte, che permettono la rappresentazione del dramma. Non è sufficiente fermarsi agli “effetti del reale”, ma bisogna trovare «[…] le cause, e con esse i principi che le sottintendono, quei principi che costituiranno […] il soggetto degli Etudes philosophiques di Balzac». Questo spiega l’insistenza di Balzac per le descrizioni dei particolari, il suo calcare sui gesti, sulle spiegazioni, i suoi continui interventi d’autore, gli effetti di realtà, le metafore. Bisogna scavare sotto l’apparenza del reale, anche se la vista di cosa si cela sotto può portare all’afasia, all’incapacità di “mostrare” ciò che si è scoperto. La realtà stessa è una débauche, è frammentaria e caotica, perché non c’è più un Ordine regolatore. Si è frantumata e relativizzata; il potere della monarchia Assoluta è stato sostituito da altri poteri e ciò che conta è la ricerca del consenso. Adesso tutto si fa più complicato. La polverizzazione del reale rischia di decontestualizzare tutte le certezze e le sicurezze dell’uomo del XIX secolo. Come gli oggetti della bottega dell’antiquario (che non sono “effetti di realtà”, ma puro significato decontestualizzato) sono testimoni di un naufragio, pezzi di un mondo che rimangono dopo il naufragio della rivoluzione francese, come i discorsi dei commensali del festino sono anch’essi frantumati, esempi del caos incombente,così la realtà rischia di perdere la sua identità, di diventare incomprensibile e irrappresentabile. Compito del poeta è di «[…] pervenire ad una rappresentazione significativa », di cercare di fare ordine, di produrre il senso, senza ricercare il puro significato (ciò produrrebbe l’incapacità dell’espressione artistica e il naufragio continuerebbe all’infinito), bensì lavorando sul piano della «rappresentazione e dell’articolazione del linguaggio» (1).

1  Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica, Pratiche Editrice, p. 166

30 maggio 2015

La peau de chagrin (Honoré de Balzac, 1831): 4/5 Il melodramma: due esempi

I nuclei melodrammatici del romanzo non sono pochi. Ne ho scelti un paio  dove entrano in campo le due donne della storia: Fœdora e Pauline. La scena con Fœdora è quella della rivelazione. Raphaël confessa il suo amore a la sua miseria e Fœdora piange dopo essere venuta a conoscenza di tutti i sacrifici di Raphaël. Per vederla non ha badato a dissipare tutti i suoi averi;  ha digiunato, cercando di condurre con difficoltà due vite parallele e il racconto di questi suoi sacrifici non è stato «[…] la narrazione senza calore d’un amore esecrato» (1) ma un’ispirazione dovuta all’amore che ha ripetuto «[…] il grido di un’anima straziata [e le] preghiere d’un morente sul campo di battaglia» (2). Fœdora reagisce al racconto di Raphaël con il pianto. È sincera? La donna ha un cuore? Niente di tutto questo, perché il narratore chiarisce subito e senza equivoci che
Ses larmes étaient le fruit de cette émotion factice achetée cent sous à la porte d’un théâtre, j’avais eu le succès d’un bon acteur (3)
Il dramma diviene più intenso: ci sono le lacrime finte che non incantano Raphaël. Fœdora tenta una risposta che sembrerebbe un tentativo di simulare una certa pietà ma Raphaël la interrompe minacciandola di morte per l’amore che prova ancora per la donna. Le rivela di averla spiata nella sua stessa camera.  Fœdora sembra turbata, arrossisce, ma è un attimo; gli lancia subito dopo uno sguardo sprezzante e dice:
Vous avez dû avoir bien froid! (4)
E Raphaël risponde:
Croyez-vous, madame, que votre beauté me soit si précieuse? […] Mais j’étais ambitieux, je voulais vivre cœur a cœur avec vous, avec vous qui n’avez pas de cœur […] Combien je souffre (5)
Fœdora ribatte allegramente affermando che non apparterrà mai a nessuno. Raphaël afferma indignato che con un tale comportamento ella si ritroverà un giorno sola e vecchia e soffrirà mali inauditi. Il dialogo continua su questi toni. Ormai è uno scontro aperto e le parole sono colpi di sciabola che feriscono Raphaël (ma non Fœdora). La crudeltà della donna è sottolineata dalle sue risate, dalla sua indifferenza. «No, non vi amo […] Mi sento felice di essere sola […] D’altronde i bambini non mi piacciono […] Perché non vi sentite accontentato dalla mia amicizia?» (6). Il contrasto tra le due donne, oltre che verbale diventa anche emotivo: Fœdora continua a ridere, mentre Raphaël piange. A un certo punto Raphaël dice:
Je ne vous verrais plus (7)
E lei :
Je l’espère (8)
Altra scena piena di pathos. Raphaël vive ormai la sua agonia, è ricco ma schiavo dei suoi desideri. Si reca al teatro Favart dove viene rappresentata la Semiramide. Al teatro rivede quasi tutti i personaggi: il vecchio antiquario, Fœdora, Taillefer, Emile, Rastignac, quando all’Ouverture del secondo atto una signora gli si siede accanto. Raphaël non si volta a guardare la donna, eppure dalle reazioni del pubblico ammirato, dai cenni che gli fa Emile, si rende conto di avere accanto una donna di fuoco. Ma Raphaël non si può voltare, deciso a non rompere il patto concluso con se stesso per cui non può guardare più una donna. Però non resiste a certi impercettibili segnali che provengono inconsciamente dalla donna: il fruscio “femmineo” delle pieghe del vestito di lei, il suo respiro che si trasmette agli abiti, in modo da comunicare a Raphaël la vita soave «[…] comme une étincelle électrique»(9), il tulle e le trine che trasmettono alle sue spalle vellicate il calore di «quel dorso bianco e nudo». Raphaël si volta e quella donna da lui immaginata di fuoco non è altri che Pauline, la ragazza della soffitta, alla quale Raphaël ha insegnato a suonare il pianoforte. Pur essendo diventata ricca possiede lo stesso candore, lo stesso atteggiamento, la stessa modestia verginale. È la donna che Raphaël ha sempre sognato, la donna che capisce i poeti e vive nel lusso. Queste due scene sono melodrammatiche, anche se il dramma viene raggiunto nell’una tramite il dialogo e i gesti, e nell’altra attraverso le sensazioni tattili e olfattive in un crescendo erotico probabilmente ineguagliabile con altri mezzi. Lo scontro verbale-gestuale tra Raphaël e Fœdora è messo in risalto dall’atteggiamento manicheo dei due personaggi. Ambedue hanno scelto la “débauche”, hanno scelto di vivere fuori dalla norma. Fœdora è la donna di ghiaccio, bella e irraggiungibile, che vuole tutti gli uomini ai suoi piedi, pronti a soddisfare ogni suo capriccio. A lei interessa soltanto il denaro e la vita mondana, non ama Raphaël, ma lo vuole come schiavo. Conosce i codici della vita lussuosa, ma non va oltre le apparenze. Non sembra che vi sia un senso profondo dietro il suo comportamento. Per lo meno Raphaël non riesce a decifrarlo. La scena con Pauline al teatro è ancora più melodrammatica. In realtà gli spettatori non guardano lo spettacolo che si rappresenta, ma il palco dove sono seduti Raphaël e Pauline. Raphaël si è promesso di non desiderare più nessuna donna per impedire al talismano di restringersi ulteriormente. Eppure le sensazioni tattili e olfattive che prova dal contatto con la sconosciuta, il respiro di lei che si trasmette lungo il suo corpo, il profumo emanato dalla pelle della femmina, si accumulano provocando un crescente erotismo, fino a quando Raphaël, non potendo resistere alla curiosità di conoscere quella donna di fuoco, si volta e scopre che si tratta di Pauline. Per ironia della sorte sarà quindi la candida Pauline, che vive nell’ «abnegazione e nell’offerta di sé», la donna fatale a Raphaël. Anche se la causa della sua morte è la «débauche», la dissolutezza, la vita nell’eccesso, Raphaël si è difeso riuscendo ad evitare di desiderare tutte le donne (persino la fredda Fœdora che avrebbe potuto essere sua solo l’avesse voluto). Ma Raphaël non riesce a resistere alla tentazione di vivere con Pauline e il suo rapporto con la donna porterà la pelle di Zigrino a ridursi alle dimensioni di una fogliolina. Pauline è un personaggio a tutto tondo, una donna di tipo “orientale” che vive nell’abnegazione per l’uomo amato. Eppure non sembra una donna che ha scelto di vivere nella «débauche» (anche se l’abnegazione potrebbe essere considerata una forma di dissolutezza). Raphaël, giunto sull’orlo del baratro, decide di morire tra le braccia della sua Pauline (anche questa scena finale è fortemente drammatica). Possibile che la débauche porti Raphaël sull’orlo del baratro, ma sia la castità a dargli l’ultima spinta? Forse Pauline è un sogno che si è realizzato (una donna che ama i poeti e ricca è sempre stato il vero, unico desiderio di Raphaël). Morire per un sogno è un gesto eroico che ingigantisce ancora più i personaggi di questo ultimo atto.
1. Honoré de Balzac, La pelle di zigrino, TEA 1992, p.1894 (traduzione italiana a cura di Giorgia Vivanti)
2. Ivi, p.p. 189-190
3. Honoré de Balzac, La Peau de chagrin, Galllimard 1974, p. 216
Ibidem
5. Ivi, p 216-217
6. Honoré de Balzac, La pelle di zigrino, TEA 1992, p. 191 (traduzione italiana a cura di Giorgia Vivanti)
7. Honoré de Balzac, La Peau de chagrin, Galllimard 1974, p. 218
8. Ibidem
9. Ivi, p. 173
  

L'immagine è tratta dal film omonimo di Alain Berliner del 2010

28 maggio 2015

La peau de chagrin (Honoré de Balzac, 1831): 3/5 Effetti di pre-cinema: il melodramma

I “nuclei teatrali”, le parti forti, sono fondamentali nei romanzi di Balzac, sono tentativi di scavare sotto la realtà e di portare alla luce l’autentico dramma, di scovare i conflitti che operano sotto l’apparenza, e in particolare in questo racconto, di portare alla luce le forze occulte. «Le azioni, i gesti, rimandano a una serie di  interrogativi tesi a scoprire i significati impliciti. La voce narrante non si limita a descrivere» (1) i gesti. Il narratore effettua una pressione costante sul reale per costringerlo a fare emergere tutto ciò che sta dietro. E può raggiungere il suo scopo formulando ipotesi, anche le più fantastiche. Il semplice gesto di consegnare un cappello può scatenare una reazione a catena. Lo sconosciuto che entra nella sala da gioco è già in trappola, mette in gioco se stesso, la sua stessa vita. In questa prima parte l’azione si svolge in maniera singolare: è spezzata da interrogativi, interventi d’autore, descrizioni. L’usciere della sala da gioco diventa metafora di un vita dissoluta, è l’incarnazione del Gioco, è un cerbero che scorta le anime dannate, ma è anche un «conseil vivant». Se lo sconosciuto fosse riuscito a vedere al di là delle apparenze, forse sarebbe ritornato sui suoi passi. L’usciere viene descritto mentre compie dei gesti (prende il cappello al giovane, gli consegna un gettone numerato). Non è un vero e proprio personaggio, ma un “tipo” ignobile; nel suo sguardo un «[…] filosofo avrebbe veduto le miserie dell’ospedale, il vagabondare di gente in rovina, l’istruttoria ad una folla di asfissiati, i lavori forzati a vita e le deportazioni al Guazacoalco» (2). Circa due pagine dopo lo sconosciuto entra nella sala (paragonata a un’arena per via dei suoi muri ricoperti da una carta bisunta, di un pavimento sudicio, a causa di semplici sedie di paglia pigiate intorno a un tappeto logorato dall’oro e disposto su una tavola oblunga) dove si trovano alcuni giocatori. Entra nell’arena, fa il suo ingresso sotto lo sguardo indagatore del pubblico (i giocatori). Ci sono tre vecchi calvi seduti intorno al tappeto verde, che stanno impassibili ad osservare con i loro volti di gesso; c’è un italiano assorto nel gioco che forse ascolta i presentimenti segreti, cioè gli assensi o i dinieghi su una puntata; infine sette od otto spettatori in piedi che seguono la scena. Questi uomini in piedi sono il pubblico attento che è paragonato dal narratore allo stesso pubblico che assiste immobile all’esecuzione di una sentenza di morte in Place de la Grève. Questa scena è molto interessante perché somiglia a una sequenza cinematografica. Infatti, leggendo attentamente il testo, è possibile ricavare la seguente situazione: lo sconosciuto ENTRA NELLA SALA, ci sono già dei GIOCATORI, DESCRIZIONE dei giocatori, i giocatori si VOLTANO quando lo sconosciuto entra nella sala. In un primo momento ho avuto la sensazione che lo sconosciuto sia entrato due volte nella sala, ma riflettendo mi sono reso conto che la scena debba essere immaginata come osservata da due differenti punti di vista: in un primo momento il punto di vista è quello dello sconosciuto che subito dopo avere aperto la porta vede l’arredamento della stanza, i giocatori, il tavolo con tappeto verde, raccolti in un unico quadro (un campo lungo); ma immediatamente la macchina da presa viene spostata dall’altra parte della stanza, dove stanno gli “spettatori” e lo sguardo del narratario coincide con quello degli stessi personaggi (comparse). Da qui in poi la ripresa prosegue con la descrizione dello sconosciuto, visto come un condannato a morte, filtrata attraverso le impressioni che suscita negli spettatori. Balzac non poteva conoscere il cinema, ma sicuramente aveva assistito a spettacoli melodrammatici. Il Melodramma richiede l’azione eccessiva, i contrasti evidenti tra i personaggi, quindi i «[…] romanzi sfociano in momenti di confronto […] nei quali un contenuto significativo immenso perviene alla rappresentazione melodrammatica. Lo stile vien così concepito come drammatizzazione della realtà ed accentuazione dell’effetto» (3). A guardar bene tutta la storia di Raphaël è melodrammatica, perché la scelta di una vita dissoluta, di una vita che sconfigge la quotidianità in una lotta continua contro i mostri che si celano dietro le apparenze, una vita vissuta al di sopra dei propri mezzi, è la scelta di un dramma continuo, per cui un semplice gesto della donna amata, un semplice rifiuto, o una semplice richiesta di fiori, si trasformano in situazioni estreme in cui Raphaël si muove a fatica. Gli oggetti, le azioni più banali, i vestiti stessi che indossa, diventano allora portatori di senso; non sono semplici “effetti” di realtà, ma nascondono qualcos’altro, in altri termini “significano”. È questo eccesso di significato che determina il dramma. Lo spessore delle cose aumenta e persino il gesto di dare la mancia a un facchino provoca una tensione tutta melodrammatica. I vestiti che Raphaël indossa potrebbero tradirlo nei confronti di Fœdora. In particolare un cappello tenuto con cura, non nuovo, ma ancora passabile. Raphaël non ha i soldi per pagare una carrozza e tutte le volte che torna dal palazzo di Fœdora alla sua soffitta è costretto a percorrere un lungo tratto a piedi; ecco allora che un banale temporale può compromettere tutto:
Pour comble de malheur, la pluie déformait mon chapeau. Comment pouvoir aborder désormais une femme élégante et me présenter dans un salon sans un chapeau mettable ! Grâce à des soins extrêmes, et tout en maudissant la mode niaise et sotte qui nous condamne à exhiber la coiffe de nos chapeaux en le gardant constamment à la main, j’avais maintenu le mien jusque-là dans un état douteux. Sans être curieusement neuf ou sèchement vieux, dénué ou très soyeux, il pouvait passer pour le chapeau d’un homme soigneux ; mais son existence artificielle arrivait à son dernier période, il était blessé, déjeté, fini, véritable haillon, digne représentant de son maître. Faute de trente sous, je perdais mon industrieuse élégance (4).
Qui un cappello acquista una valenza melodrammatica, si riempie di significato: una volta rovinato dalla pioggia e non sostituito farebbe risaltare l’indigenza di Raphaël.
1. Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica, Pratiche Editrice, p. 15
2. Honoré de Balzac, La pelle di zigrino, TEA 1992, p. 4 (traduzione italiana a cura di Giorgia Vivanti)
3. Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica, cit., p. 149
4. Honoré de Balzac, La Peau de chagrin, Galllimard 1974, pp. 173-174


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27 maggio 2015

La peau de chagrin (Honoré de Balzac, 1831): 2/5 immaginazione melodrammatica

Quando, nella seconda parte del romanzo, Raphaël racconta la sua storia, vi sono differenze notevoli con la prima parte, soprattutto da un punto di vista stilistico. Il racconto passa infatti dalla terza alla prima persona, il narratore eterodiegetico lascia il posto a un narratore intradiegetico che è dentro l’azione e che non è quindi onnisciente. Questo narratore secondo non è padrone indiscusso del racconto, non ne conosce gli esiti, ma il suo scopo è quello di “contestualizzare” la storia di Raphaël, che per quasi tutta la prima parte del romanzo è un eroe senza nome, immerso  in un mondo fantastico, e riceve un nome soltanto quando il destino si è compiuto (l’uscita dalla bottega dell’Antiquario è già l’inizio dell’agonia). A questo punto può entrate nella storia, immergersi nel baccanale offerto dal banchiere Taillefer e confessare il percorso della sua caduta. Anche nel racconto retrospettivo troviamo numerose descrizioni che determinano una situazione, che riescono a far comprendere il rapporto tra il personaggio e il suo “milieu”. Raphaël a vent’anni indossa, al ballo del duca di Navarreins, cugino di suo padre, un «[…] habit râpé, des souliers mal fais, une cravate de cocher et des gants déjà portés» (1). Questo abbigliamento trasandato serve, come afferma lo stesso narratore al suo narratario, per “comprendere” la posizione del personaggio che è già “attratto” dal “fatale tappeto verde” di un tavolo da gioco. E anche la sala da gioco improvvisata durante la festa in casa del cugino Duca è descritta con abbondanza di particolari.  Notevole ad esempio la descrizione della sonorità della stanza, dove l’effetto di realtà è pienamente compiuto. L’ostacolo “sonoro” che impedirebbe a Raphaël di udire le parole dei giocatori, se non fosse per il «[…] privilegio accordato alle passioni che dà loro il potere di annullare spazio e tempo» (2), è un esempio eclatante dell’importanza di una descrizione di tipo realista:
[…] le bourdonnement des voix empêchait de distinguer le son de l’or qui se mêlait au bruit de l’orchestre (3)
Da approfondire anche la descrizione del paesaggio di tetti che Raphaël vede dalla sua soffitta, dove eppure pulsa la vita di una Parigi sprofondata nella miseria (una donna che annaffia i fiori, una ragazza che fa la toeletta) e degli stupendi contrasti cromatici causati dalla variazioni della luce con il trascorrere del tempo e con il cambiamento del clima:
Tantôt le soir des raies lumineuses, parties des volets mal fermés, nuançaient et animaient les noires profondeurs de ce pays original. Tantôt les lueurs pales des réverbères projetaient d’en bas des reflets jaunâtres à travers le brouillard, et accusaient faiblement dans les rues les ondulations de ces toits presses, océan de vagues immobiles. Enfin parfois de rares figures apparaissaient au milieu de ce morne désert, parmi les fleurs de quelque jardin aérien, j’entrevoyais le profil anguleux et crochu d’une vieille femme arrosant des capucines, ou dans le cadre d’une lucarne pourrie quelque jeune fille faisant sa toilette, se croyant seule, et de qui je ne pouvais apercevoir que le beau front et les longs cheveux élevés en l’air par un joli bras blanc. J’admirais dans les gouttières quelque végétations éphémères, pauvres herbes bientôt emportées  par un orage! J’étudiais les mousses, leurs couleurs ravivées par la pluie, et qui sous le soleil se changeaient en un velours sec et brun à reflets capricieux. Enfin les poétiques et fugitives effets du jour, les tristesses du brouillard, les soudains pétillements du soleil, le silence et les magies de la nuit, les mystères de l’aurore, les fumes de chaque cheminée, tous les accidents de cette singulière nature devenus familiers pour moi, me divertissaient (4)
Gli esempi sarebbero innumerevoli, ma importa notare come tutto venga amplificato dall’immaginazione dello scrittore: lo specchio che riflette la realtà, che riesce a rendere alcuni aspetti del reale è nella mente del poeta; non si tratta di riportare fedelmente la realtà, lo specchio non fotografa il reale, ma è assoggettato all’immaginazione del poeta, «[…] car il ne s’agit pas seulement de voir, il faut encore se souvenir et empreindre ses impressions dans un certain choix de mots, et les parer de toute la grâce des images ou leur communiquer le vif des sensations primordiales»(5). L’effetto di realtà, che attenua il senso, in Balzac è del tutto particolare. Vi è infatti una dilatazione del reale, e in certi momenti della narrazione sembra quasi che ogni movimento, ogni gesto, sia ripreso al rallentatore, perché gli “effetti” nascondono delle cause, calano le “macchine” che spostano le quinte e che producono i trucchi della rappresentazione. L’insistere continuo sui particolari, la ripresa rallentata, può aiutare a produrre senso. Il poeta è obbligato ad avere in sé uno specchio concentrico, dove, seguendo la sua fantasia, va a riflettersi l’universo, scrive Balzac. Dunque immaginazione e specchio. Ma se il reale tende a nascondere quello che c’è sotto, l’immaginazione può aiutare a “vedere” le cause e l’immaginazione non può che essere melodrammatica.
1. Honoré de Balzac, La Peau de chagrin, Galllimard 1974, p. 119
2. Honoré de Balzac, La pelle di zigrino, TEA 1992, p. 95 (traduzione italiana a cura di Giorgia Vivanti)
3. Honoré de Balzac, La Peau de chagrin, cit., p. 120
4. Ivi, pp. 137-138
5. Honoré de Balzac, Préface (1831) a La Peau de chagrin, p. 402

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24 maggio 2015

La peau de chagrin (Honoré de Balzac, 1831): 1/5 effetto di realtà

«La prima [direzione] ci ha condotti» , scrive Franco Moretti, «all’appannamento delle opposizioni paradigmatiche, all’entropia, al processo di socializzazione; la seconda invece alla lievitazione del quotidiano, all’apertura dei riempitivi narrativi, al benessere. Il primo percorso riguarda, grosso modo, l’eroe realista. Il secondo, il mondo realista» (1). È un’affermazione che chiarisce, rettificandola, l’idea che sta alla base del saggio di Barthes (2): il significato viene espulso dal segno in quanto l’effetto di reale comporta la collusione tra significante e referente. Per Moretti nella retorica realista si ha un indebolimento di significato e non un’espulsione; quindi non c’è un realismo “interstiziale”, ma, per quanto riguarda in particolare il racconto, vi sono nuclei e catalisi, ossia momenti densi di significato, “zone” cruciali che producono senso, e zone riempitive che indeboliscono il senso. Il realismo ottocentesco si è liberato della narrazione di tipo epico-tragico, quella dei grandi eroi, dei grandi eventi, e si è arricchito della quotidianità (oggetti, gestualità, clima, geografia) quindi di zone più deboli della narrazione che “attenuano” i significati, ma creano “effetti di realtà”, zone che introducono la vita quotidiana nella letteratura. Una quotidianità fatta anche di corse sotto la pioggia, di cappelli rovinati dal temporale, di sarti che fanno credito a giovani pretendenti, di facchini che chiedono la mancia, persino di tazze colme di latte.

Je me souviens d’avoir quelquefois trempé gaiement mon pain dans mon lait, assis auprès de ma fenêtre en y respirant l’air, en laissant planer mes yeux sur un paysage de toits bruns, grisâtres, rouges,  en ardoises en tuiles, couverts de mousses jaunes ou vertes (3)

Questi “frammenti” di realtà sono fondamentali nei romanzi di Balzac, perché servono a determinare la storia narrata e a collocarla in contesti descritti minuziosamente; non sono fini a se stessi, né sono scenari immobili gettati nella storia solo per riempirla, sono al contrario parti neutre essenziali alla retorica realista che ha «[…] ottenuto tanta fortuna ideologica e politica forse proprio perché […] appare funzionale al nuovo mondo dell’Europa borghese: un mondo che smorza le individualità attraverso un processo di socializzazione e si priva quindi di senso»(4).
La “confessione” di Raphaël all’amico Émile abbonda di descrizioni fondamentali per conoscere il personaggio, la sua vita con il padre, la perdita delle sostanze a causa di investimenti sbagliati, la povertà, quei tre anni vissuti in una misera soffitta, l’incontro con Rastignac e quindi l’ingresso nell’alta società, la vita mondana a fianco di Fœdora. Il racconto retrospettivo di Raphaël è la storia di una caduta senza possibilità di redenzione; in questo caso non c’è stata la conversione morale che abbiamo trovato in Adolphe, non c’è stato il passaggio da una vita di errori, dalla faiblesse, a una presa di coscienza, a una consapevolezza che dia un senso alla storia. Raphaël racconta solo per rispondere a una semplice domanda:  perché stavo per suicidarmi? Per questo deve percorrere la sua vita a ritroso di alcuni anni fino all’incontro con Émile sul lungo Senna, raccontando la storia della sua caduta dal Cielo alla débauche, da una vita monacale dedita agli studi a una vita di dissolutezze. Nel romanzo l’effetto del reale è efficace, Balzac immette il personaggio nella storia. La “confessione” di Raphaël si svolge dentro il festino offerto dal banchiere Taillefer in occasione della fondazione di un giornale che dovrà essere di supporto alla monarchia costituzionale, addirittura un giornale che viene fondato «[…] dans le but de faire une opposition qui contente les mecontentes, sans nuire au gouvernement National du roi-citoyen»(5). La descrizione dei convitati che Émile mostra a Raphaël in un salone risplendente di dorature e di luci (un pittore, uno scultore dal volto rude, uno scrittore, un caricaturista dagli occhi maliziosi e dalla bocca mordace, un altro scrittore che s’intrattiene con un poeta, un musicista che consola in si bemolle un politico caduto dalla tribuna senza farsi male, due o tre scienziati, parecchi scrittori di «vaudevilles», addirittura un sentenzioso che non si stupisce mai di niente, «[…] qui se mouche au milieu d’une cavatine aux Bouffons»)(6), oltre a rispecchiare magnificamente l’atmosfera di un saturnale della Parigi dei primi ottocento, rappresenta una delle innumerevoli descrizioni “deboli” che precedono scene dense di senso. La descrizione dell’ambiente si trattiene su ogni particolare e gesto: dopo l’atmosfera creata dai convitati, il narratore si sofferma sull’anfitrione, quindi su una fugace apparizione di un cameriere in nero che apre le porte di una vasta sala da pranzo descritta attraverso lo sguardo di Raphaël: seta e oro dovunque che tappezzano l’appartamento, ricchi candelabri con numerose candele che illuminano e mettono in risalto i particolari di fregi dorati, le cesellature dei bronzi e i colori della mobilia; fiori rari ben disposti e profumati. Dopo una pagina circa di commenti a quella magnificenza, la descrizione prosegue “nel mostrare” la tavola imbandita vista attraverso l’ammirazione di ogni convitato: innanzitutto  la tavola è bianca «[…] comme une couche de neige fraîchement tombée»(7) e sopra si trovano i coperti disposti simmetricamente e coronati da panini biondi: quindi inizia l’elenco degli oggetti posti sopra la tavola: cristalli che rispecchiano i colori dell’iride, candele che incrociano all’infinito le loro luci, vivande sotto cupole d’argento che aguzzano appetito e curiosità. Dopodiché vengono portati il vino di Madera e la prima portata, che introducono l’inizio del saturnale con i suoi spezzoni di dialogo sempre più frantumato via via che i commensali perdono in lucidità. Quando il narratore introduce l’ “arrivo” della frutta, ormai la descrizione degli oggetti non passa più attraverso i convitati, capaci soltanto di avere una vaga intuizione dello spettacolo che si presenta ai loro occhi. È il narratore stesso che descrive la fruttiera colma di cesti di fragole, ananassi, datteri, uve di ogni tipo, melagrane, frutti cinesi, e infine la pasticceria. Sublime anche la descrizione dell’ harem, delle ragazze che attendono i convitati in un’altra stanza:
De petits pied étroits parlaient d’amour, des bouches fraîches et décentes jeunes filles, vierges factices dont les cheveux respiraient une religieuse innocence, se présentaient aux regard comme des apparitions qu’un soufflé pouvait dissiper (8)
Anche la seconda parte del romanzo abbonda di parti descrittive, di catalisi, che servono a preparare le scene più drammatiche, oltre che ad alimentare il contesto della storia. Un contesto “imbevuto” di realtà, che è anzi esso stesso un effetto di realtà formato da un’infinità di particolari, di gesti, di comportamenti, in cui domina la ricchezza e la ridondanza dei significanti, e in cui le descrizioni si susseguono l’una incastrata nell’altra a un ritmo incalzante, quasi parossistico. L’attenzione per il particolare, per la precisione delle descrizioni, dell’analisi dei tratti di un volto, la cura con cui spesso l’autore abbina un carattere o una professione a un tratto fisico (il caricaturista dagli occhi maliziosi e dalla bocca mordace) o a un gesto (il sentenzioso che si soffia il naso), risulta fondamentale per inquadrare tanto la società che “circonda” il protagonista, quanto la “teatralità” di certi “nuclei” narrativi.
1. Franco Moretti, L’anima e le cose, in Realismo ed effetti di realtà nel romanzo dell’Ottocento, Bulzoni 1933 p. 33
2. Roland Barthes, L’effet de réel, in Le Bruissement de la langue, Seuil 1984, pp 167-174
3. Honoré de Balzac, La Peau de chagrin, Gallimard 1974, p. 137
4. Franco Moretti, L’anima e le cose, cit., p. 34
5. Honoré de Balzac, La Peau de chagrin, cit., p. 70
6. Ivi, p. 76
7. Ivi, p. 79
8. Ivi, p. 98

20 maggio 2015

Interstellar (Christopher Nolan, 2014). 3 /3 Ritorno al classico


Lo stratagemma dell’alfabeto morse per comunicare a Murphy la tecnologia utile a salvare l’umanità non è affatto originale: mi viene ad esempio in mente il primo film di Star Trek del lontano 1979. Forma ante litteram di comunicazione digitale potrebbe essere paragonato alla comunicazione binaria. Ma dall’interno delle cinque dimensioni è possibile usare un  sistema digitale per inviare segnali all’orologio di Cooper poggiato su uno scaffale della biblioteca di Murphy? Perché in un film, in cui ha tenuto tanto a rispettare le leggi della fisica (non fino in fondo però), presupponendo addirittura un universo a cinque dimensioni (ma si trova dentro Gargantua?), il mezzo per comunicare con Murphy è un alfabeto datato 1837? L’alfabeto morse interferisce con il tempo (l’orologio),ma  non è evidente come il battito del dito di Cooper sull’elastica libreria sia trasmesso alle lancette dell’orologio afferrato da Murphy adulta. In altri termini un codice linguistico “arcaico” diviene medium della salvezza dell’umanità attraversando lo spazio tempo,  “scendendo” di una dimensione e fuoriuscendo da un buco nero. Solo l’alfabeto morse può uscire dall’orizzonte degli eventi di Gargantua, la dove neppure la luce può osare?  L’intera sequenza  all’interno del gigante è molto fantascientifica, pertanto niente da obiettare se un segnale antico riesce a uscire da un luogo in cui la gravità impedisce persino alla luce di venire fuori. Il nome scelto per il buco nero appartiene a un gigantesco personaggio di un romanzo di Rabelais (Gargantua e Pantagruel); Gargantua nato da un orecchio della madre Gargamelle, figlio di Grangousier, diviene l’erede del regno di Utopia e dopo molte vicende ingaggia una battaglia contro un re con l’aiuto di un frate; ottenuta la vittoria, per ringraziarlo, dona al frate e ai sudditi l'abbazia di Thélème, dove regna l’armonia e dove ognuno può fare quel che vuole.  Come un gigante (parodia di un Dio) permette agli uomini di usare il libero arbitrio, allo stesso modo nell’antro di una stella collassata, luogo in cui già il tempo fa quel che vuole, a parte la probabile spaghettificazione di ogni corpo od oggetto al di là dell’orizzonte degli eventi, tutto è possibile. Inoltre l’alfabeto morse non è poi così tanto “arcaico” e neppure tanto “digitale”; infatti non rispetta due condizioni come il sistema binario (0 e 1) ma cinque (punto,linea,intervallo breve, intervallo medio, intervallo lungo). Il numero cinque non ricorda per caso l’universo a cinque dimensioni del tesseratto? Nolan ci comunica che ha cercato di attenersi  alla scienza, ma in fondo il racconto è un’utopia la cui sinossi ristretta può sintetizzarsi in: l’amore sconfigge la gravità e niente gli è precluso. Utopia in fondo è Fantascienza, anche quella più vicina alla Scienza e in effetti la città spaziale è quanto di più scientifico sia illustrato in Interstellar: un’umanità che solca lo spazio semplicemente abitandovi; lo spazio infinito come una casa. La breve sequenza della città spaziale è in effetti molto interessante. Cooper si risveglia in ospedale dove un medico gli fa sapere che si trovano nella stazione spaziale Cooper, nome assegnato non in suo onore ma in onore di Murphy; una volta dimesso lo conducono nella sua nuova abitazione, una copia della vecchia casa, qui trova anche TARS, lo ripara, si reca in ospedale al capezzale di sua figlia circondata da parenti, figli, nipoti, pronipoti. Murphy gli rivela che deve raggiungere Brand, ormai rimasta sola, scesa sul terzo pianeta, nuova casa dell’umanità. Sono circa nove minuti in cui il racconto si condensa, nove minuti che definirei epici in quanto le parti riempitive (descrizioni, scene) sono quasi nulle a tutto vantaggio del racconto (nell’epica dominano i nuclei narrativi). A differenza della più parte delle sequenze in cui dominano catalisi (descrizioni, paesaggi suggestivi, dialoghi, azione, emozione) nella sequenza finale la storia acquista “velocità”. Murphy nel suo lettino d’ospedale racconta a Cooper di Brand, indicandogli anche il punto d’arrivo del viaggio. Poiché adesso i salti temporali ci hanno permesso di capire che Cooper è fuori dal suo tempo, rimasto giovane in un’epoca in cui la figlia ormai è circondata dai propri cari, e che l’unica persona sua coeva e pure rimasta  giovane come lui (anche se non è entrata nel buco nero) è Amelia Brand, il destino di Cooper deve essere connesso a quello di Amelia. In seguito, con calma, la stazione spaziale, che sta orbitando intorno a Saturno, entrerà forse nel wormhole, oppure potrebbe vagare nel cosmo per millenni prima di approdare nel pianeta abitabile. Una sequenza, definiamola sufficientemente naturalistica che contrasta con quella precedente (la sequenza del tesseratto) molto, molto fantascientifica. Perché Nolan ha deciso di concludere il film con una sequenza emotivamente forte, ma piuttosto prevedibile? In tutto questo amore ha inteso sottolineare che dobbiamo amare una persona del nostro tempo; al di là di ogni ragionamento sullo spazio-tempo, sui buchi neri, sulle dimensioni, sulle brane e i bulk, il percorso più sincero, emozionante, sensazionale consiste nel seguire la persona amata come accade in tanti film d’amore, come accade ad esempio nell’epilogo di Sabrina di Billy Wilder quando sopraggiunge Larry mentre Sabrina sta prendendo il sole sul ponte della nave. Lui ha già scelto di seguirla in Europa, dopo aver lasciato i propri affari di milionario, perché sa di amarla.

16 maggio 2015

Interstellar (Christopher Nolan, 2014). 2/3 Oltre l’oroptero

Nelle zone fuori dall’area di Panum (1) gli oggetti vengono visti come doppi. È una sensazione insopportabile e fastidiosa che si prova quando si soffre di diplopia. La verosimiglianza in Interstellar subisce un lento e inesorabile processo di sdoppiamento per  cui da un lato le immagini e dall’altro i personaggi sono visti da due punti di vista differenti che non si allineano. Il fatto è che l’occhio tende comunque a contentarsi di ciò che vede e il cervello, nel caso di diplopia, esclude presto un occhio per dare unità all’immagine. Il film riesce a scombinare la stereoscopia come per sottolineare che stiamo per addentrarci in una visione quadridimensionale. Interstellar è un film quadridimensionale in cui si intravede il tentativo di metabolizzare lo spazio-tempo. Se in Inception ci si addentrava in un abisso di scatole cinesi, in Interstellar le scatole cinesi sono sempre lì, ma proiettate oltre l’area di Panum. Per vederle e attraversarle bisogna imparare a disallineare lo sguardo. Così i personaggi si moltiplicano grazie all’espediente del tempo che scorre in un attimo solo per chi si è avvicinato ad un buco nero; pertanto Murphy interagisce con Cooper da tre punti temporali differenti: bambina, adulta, vecchia. Questo sdoppiamento risulta impossibile nella linearità temporale,  ma quando lo sguardo perde la propria centralità e si “sdoppia” addirittura “triplica” seguendo direzioni differenti, si consolida nell’elaborazione mentale quantistica. In questo modo l’emozione primaria (nel film si attribuisce all’amore un’energia superiore a qualsiasi forza fisica) si concentra in un unico messaggio. L’amore verso i propri cari è di tipo diverso a seconda del grado di parentela: filiale e materno (storge), senso di innamoramento per una persona di altro o stesso sesso (eros). Murphy è figlia e madre di Cooper e persino moglie (anche se metaforicamente), tre donne in una che Cooper ha la sfortuna di incontrare oltre le certezze della stereoscopia. Questo scompenso visivo si amplifica quando Cooper, trovandosi nel tesseratto, ci riporta nell’incipit di Interstellar per cui si trova nello stesso punto in due età diverse della vita di Murphy (anche se non vede Murphy adulta il montaggio alternato condiziona emotivamente l’osservazione del rapporto Cooper-Murphy-Murphy adulta) . Nella sequenza si raggiunge il momento di massima tensione drammatica quando Cooper  “vede” sua figlia bambina e lo sguardo onnisciente integra la visione della Murphy adulta restituendo la sensazione di un’unità temporale composta da due epoche diverse. L’improvvisa agnizione, la raggiunta consapevolezza che il fulcro, l’eroe, l’interprete principale è Murphy, colei destinata a salvare il mondo, completa lo Spannung. Vedere la figlia piccola e adulta significa provare il rimpianto di non averla vista crescere e allo stesso tempo vuol dire osservare se stesso in biblioteca con Murphy bambina e significa anche assaporare nell’attimo il piacere di abbracciare una persona amata. Da tutto questo scaturisce la forte emozione di una vita concentrata in un attimo, un carpe diem nostalgico che forza il racconto per formare figure retoriche tipiche della poesia. In questo caso il rapporto padre-figlia cresce di intensità proprio perché si accosta nel sintagma una paradigmatica distante, troppo compromessa dai capricci temporali. In altri termini: se le frasi “Cooper ama sua figlia” o “Cooper ama sua madre” o “Cooper ama sua moglie” sono sintagmi e se sostituisco “adora” ad “ama” tra adora ed ama intercorre un rapporto paradigmatico, utilizzando la frase “Cooper ama Murphy” (chi è Murphy? Tua moglie? Tua sorella? Tua madre?), nel contesto narrativo di Interstellar, poiché Murphy è tutto questo, trascino la forza della paradigmatica direttamente nel sintagma destabilizzando la “norma” (ciò le regole adottate in una lingua) allo scopo di formare un linguaggio poetico.  Altro rapporto oltre l’area di Panum (mi si scusi se continuo a sfruttare l’ottica ma nel caso del cinema potrebbe essere tollerabile) riguarda il confronto tra Cooper e TARS, il robot compagno di avventure con cui condividere rischi, sprezzo del pericolo e successo. In questo caso l’amicizia (amore come philia) non viene rappresentata come un tre in uno (Murphy) ma con un incastro di sdoppiamenti ancora più complesso (i robot tra l’altro sono due). Quando Cooper e TARS condividono il rischio di lasciarsi catturare dal buco nero (non voglio addentrami nel desiderio umano di rientrare nell’utero) sono come due eroi, due amici che si lanciano verso l’ignoto e nell’epilogo si ritrovano seduti sotto il porticato della città spaziale a brindare nel lieto fine del tramonto ricostruito. Comunque nell’ipercubo TARS è fisicamente assente, non è accanto a lui per aiutarlo nel tentativo di forzare l’elastica biblioteca che impedisce a Cooper di penetrare in una stanza del passato. TARS è divenuto una voce fuori campo, forse un dio, forse la voce narrante che inizia a interferire col racconto, comunicando direttamente con il protagonista. O meglio, forse è la voce stessa dello spettatore che partecipa, consiglia, incoraggia, incita l’eroe a non desistere, preso dall’emozione della storia, dal desiderio di vedere il contatto tra Cooper e Cooper. Siamo in presenza di due Cooper e di una semplice voce off: l’eco di un’amicizia che esiste, è presente perché si  ode, ma non è visibile. Forse il  fuori campo tenta di penetrare nella dimensione plurima per affermarsi come dimensione fondamentale, ossia quella dimensione che costruisce il film, riempie le ellissi, un non-visto  che la mente dello spettatore collega con l’immaginazione al visto. Questo “sdoppiamento” è molto più complesso in quanto esistono due robot, l’altro, CASE, rimane con Amelia seguendola nel suo viaggio verso il terzo pianeta colonizzato, ed anche in questo caso sarebbe interessante approfondire questo doppio-doppio, analizzare il rapporto di questa doppia-coppia. Un altro aspetto è relativo all’amore di Cooper per Amelia che sinceramente non mi sembra molto pregnante nel film, anche perché non è possibile vedere (come accade in molto cinema di genere) un uomo e una donna attraenti, ogni volta innamorarsi e magari fare anche sesso. Purtroppo però sentiamo ogni volta il bisogno di un simile epilogo. Quando un bell’attore bravo e buono incontra una bella attrice brava e bella preghiamo che Dio (il regista, l’autore) decida di farli almeno fidanzare, almeno farli rifinire in un letto. Interstellar per fortuna non è un film banale. E l’amore tra i due è un altro pezzo di poesia, si sviluppa quando non sembra ancora germogliato, in quella navetta penetrata nel  wormhole dall’ingresso sferico, nel momento in cui la mano di un Cooper di un futuro anteriore prende/prenderà la mano di Amelia. Stiamo assistendo allo sbocciare di un sentimento già fiorito, anzi già consumato. Tra l’altro questo Cooper di un futuro anteriore precede (almeno nello script) quel Cooper dell’epilogo in procinto di raggiungere una giovane Amelia tutta sola sul pianeta di Edmunds in compagnia, come detto sopra, di CASE. Siamo ben oltre l’area di Panum, qui i rapporti diventano compositi in quanto assistiamo al tentativo di innestare con semplicità, utilizzando un programma narrativo collaudato, un momento romantico (immaginare Cooper e Amelia che potrebbero incontrarsi – ma il film fortunatamente non mostra niente del genere – con i due robot sul pianeta, mi riporta a tanti incontri in Central Park di coppie a passeggio con i loro cagnolini). Un film articolato, bello come un abito con molte trame e sottotrame, colori e forme, e perfettamente allineato al corpo, da indossare, guardare, toccare, odorare, meravigliandosi di come possa adattarsi ad altri corpi. Non è possibile esaurire in un post la complessità dei rapporti attanziali, la peculiarità del discorso, la forza e i rapporti tra immagini e récit. Ci sono anche punti deboli e incongruenze (ma la poesia deve avere una sua coerenza logica?). Tra questi ad esempio l’assenza di una Murphy vecchia vista (anch’essa magari inserita nel montaggio alternato) dal tesseratto. Sarebbe stato stupefacente vedere un Cooper al capezzale di una figlia-madre, guardare  una sequenza non ancora mostrata; un simile montaggio avrebbe tolto forza al colpo di scena finale (sapere che sua figlia è ancora viva in questo lontano futuro): probabilmente un debito da saldare con la produzione sempre attenta ai dati del botteghino.


1  Solitamente  l’immagine viene percepita come unica grazie a un procedimento che permette di avere una visione binoculare singola qualunque sia la direzione dello sguardo, le due prospettive percepite (una per ogni occhio) diventano una sola tramite il processo della fusione. Si forma (ogni volta che fissiamo un punto) una curva (oroptero) composta da tutti i punti dello spazio dove c’è stata la fusione. Si ha la fusione anche in una ristretta zona che si trova davanti e dietro l’oroptero, chiamata area di Panum. Non è mia intenzione scrivere un post sulla stereoscopia ma semplicemente prendere spunto da questa caratteristica della visione binoculare tridimensionale per comprendere meglio alcuni aspetti del film che mi hanno incuriosito.

13 maggio 2015

Pranzo alle otto (George Cukor, 1933). Gli oggetti, lo sfondo 3/3

L’azione si svolge sulla superficie e personaggi, oggetti, eventi paiono galleggiare in una zona ristretta dove l’immagine è a fuoco mentre la profondità di campo si perde in un magma indistinto, per cui la distanza svanisce nello sfuocato e le cose si confondono , i dettagli svaniscono, le persone perdono consistenza; la loro esistenza, fino a poco prima fondamentale per il plot si esaurisce anche quando rimangono inquadrate per un attimo, ma ormai inessenziali alla dinamica del racconto. I film della sophisticated comedy trascurano la distanza, ciò che importa è focalizzare l’attenzione sulla superficie perché nel profondo la nebbia esaurisce ogni possibilità di redenzione (il cinema non affranca bensì sequestra). Questa perdita della nitidezza colpisce soprattutto gli oggetti, che devono pur rimanere in scena, mentre i personaggi o spariscono dietro una porta del fondale o escono fuori campo dalle quinte laterali. Nel film ovviamente, quando la scena cambia, gli attori si trovano all'istante nel fuori campo (come quando escono di scena nella stessa sequenza) ma rimangono sempre presenti nella mente dello spettatore. Sono ancora reali perché la loro immagine permane nella mente e agiscono, parlano, vivono oltre il nostro controllo. Il fuori campo rimane pur sempre parte essenziale della nostra vita e non ci stupiamo se il cinema riprende questa caratteristica dello sguardo. Sappiamo che Larry vive senza sosta il suo dramma anche quando la mdp riprende Carlotta che sgrida il suo cagnolino per la pipì liberata nel corridoio dello stesso albergo dove alloggiano Larry e Paola. Ma osservare i tendaggi, i tavoli, i modellini delle imbarcazioni, i quadri posizionati in uno sfondo evanescente e difficile da decifrare (che l’occhio non riuscirà mai a rendere nitido come nel mondo reale), senza nemmeno simulare uno sguardo naturale (nel senso che quando osservo un paesaggio gli oggetti a me vicini sono sfuocati), destabilizza il cosiddetto naturalismo del film. Gli oggetti in particolare si avvicinano alla superficie per l’uso che ne viene fatto: un telefono, una spazzola, una cornice. Quando invece sono abbandonati a se stessi, e la mdp si allontana, ecco che si squagliano, si assottigliano svanendo nell’indistinguibile. Senza la profondità di campo la recitazione diviene «[…] frammentata nei piani e contropiani», mentre i dialoghi devono rispettare «l’unicità dei campi sonori» (1). Eppure questa “frammentazione”,  oltre a rimodulare la recitazione (i movimenti continui dei personaggi con i raccordi degli sguardi) e i movimenti di macchina, soffermandosi sul dettaglio, ingrandisce a avvicina gli oggetti alla superficie come in una macrofotografia dove tutto il residuo è fuori fuoco. Questo contrasto tra oggetto nitido e ingrandito nel particolare e oggetto relegato nel magma dello sfuocato accentua la distanza dal naturalismo relegando il mondo a una immaginaria verosimiglianza che riflette l’arte e il pensiero del regista. Il cinema prende il sopravvento sul mondo determinando definitivamente una sua precisa e ineccepibile realtà, un suo mondo, con le sue regole e i suoi stilemi. Il mondo della pellicola è un altro mondo strutturato in modo da amplificare la verosimiglianza nel trascinare lo spettatore all’interno. Pertanto gli attori prendono il sopravvento sul personaggio; non è Larry Renault che osserviamo in scena ma Jonh Barrymore e così la grande attrice non è Carlotta Vance ma Marie Dressler . Lo star system si perfeziona e comincia il suo periodo migliore. Al cinema andiamo per veder recitare in Pranzo alle otto  la bellissima Jean Harlow  e l’affascinante Magde Evans di cui conosciamo già vita, morte e miracoli.

1. Edoardo Bruno, Pranzo alle otto, il Saggiatore, Milano 1994,  pag. 60

11 maggio 2015

Pranzo alle otto (George Cukor, 1933). Il set, lo spazio 2/3

Come gli artisti portano con sé il proprio personale modo di recitare lasciando emergere l’attore di teatro dal personaggio, provocando uno straniamento che toglie ogni illusione alla presunta trasparenza della sophisticated comedy, allo stesso modo lo spazio non è uno spazio naturalistico. A prima vista l’interazione tra i personaggi sembra priva di ogni opacità e lo spettatore può benissimo lasciarsi coinvolgere dai loro racconti; gli sguardi si raccordano sempre per dare un senso compiuto all’azione, i movimenti sulla scena, se pur teatrali, si lasciano seguire con naturalezza. Eppure lo spazio lascia subito emergere il set.  Che sia l’ufficio di Oliver Jordan o il salone dove Milli Jordan organizza il suo pranzo telefonando o la stanza d’albergo dove si consuma il dramma di Larry Renault, il set emerge allo scoperto divenendo il “[…] vero protagonista della messa in scena, il rifugio degli sguardi nascosti, il motore delle situazioni perturbanti”. La sequenza Larry-Paola viene introdotta da una delle tante telefonate di Milli Jordan che ha pensato a lui per sostituire un ospite impossibilitato a partecipare. Dall’introduzione che ne viene fatta sembra un grande attore (anche se la cugina di Milli afferma che le sue quotazioni sono  “in ribasso”). Mentre risponde al telefono Larry è davanti alla finestra, poi una breve panoramica orizzontale verso destra mostra Paola che subito lo raggiunge (ovviamente la mdp ritorna a inquadrare i due davanti alla finestra). Finita la telefonata i due si spostano a sinistra fino al centro della stanza (si vedono adesso due finestre e un divano sulla destra). Si muovono ancora fermandosi davanti al divano. Larry prende una bottiglia per versare del whisky in un bicchiere, ma è vuota, poi si sdraia sul divano e immediatamente Paola gli è sopra. I due si baciano (il film è dell’era pre-Codice Hays). Suona il campanello. Si alzano e mentre Paola si rimette una scarpa Larry va ad aprire la porta a un fattorino che gli consegna una bottiglia di liquore. Larry chiede il resto al fattorino. Il fattorino lo tratta con sufficienza e gli risponde andandosene che ha cambiato negozio dove il liquore costa mezzo dollaro di più. Larry ritorna davanti al divano, si versa il contenuto in un bicchiere, rientra Paola che lo vede, non vuole che beva, lui le dice di pensare ai propri affari. Larry è nervoso perché attende il suo agente e deve “decidere sul  lavoro e tante altre cose”. Paola vorrebbe rivelare che sono amanti. Larry invece cerca di convincerla a lasciar perdere perché non è l’uomo adatto per lei. Si spostano davanti al camino. Lui le dice che non è ancora finito e Paola risponde che il suo ragionamento non c’entra col loro amore. Larry racconta delle sue ex mogli delle quali una è divenuta una grande attrice, mentre Paola si sposta su un altro divano (davanti al precedente) e rimane di spalle. Nel frattempo vediamo Larry con un braccio sulla mensola del camino sulla parete di destra. Primo piano di Larry. Primo piano di Paola. Sempre Paola di spalle seduta sul divano,Larry prende la bottiglia da un tavolino messo tra i due divani e si versa del liquore, si siede sul divano di fronte a Paola. Piano medio di Larry sul divano. Primo piano di Paola che poi  si alza e va di lato a Larry senza sedersi. Piano Americano: Larry seduto sul divano e Paola in piedi che lo guarda. Gli dice: ti amo. Larry di rimando: “Tu sei giovane, fresca e io sono uno straccio”. Lei vuole rivelare a mamma e papà il loro amore ma Larry non vuole, si alza dal divano mentre suona il campanello. Entra l’agente di Larry, Paola esce.
La prima parte della sequenza introduce un uomo che sembra avere tutto: successo e una giovane donna che lo ama, ma subito dalle parole si comincia a intuire che a Larry le cose vanno male: si illude di essere ancora in auge pur sapendo di trovarsi sul viale del tramonto. Ogni frase pronunciata non fa che rimarcare il suo fallimento; sembra parlare a Paola della grande distanza di età che c’è tra i due, ma in realtà le dice continuamente di essere un fallito e di non amarla perché  innamorato soltanto del successo. Non può continuare a vivere così. Anche le sequenze seguenti  nella stanza d’albergo (il colloquio con il fattorino prima, col produttore poi e infine col direttore d’albergo) accompagnano Larry nella caduta, ribadiscono e amplificano ciò che è spiegato sin dalla prima sequenza: Larry è un uomo che non ha più futuro.  Lo spazio è claustrofobico,la mdp si muove sempre tra divani, finestre e porta d’ingresso. La stanza d’albergo diviene metafora della prigione in cui s’è esiliato Larry e la forza di questa pressione sull’osservatore non viene meno nonostante l’amore dichiarato di Paola. La sequenza di Paola e Larry non è una sequenza d’amore, ma la perfetta realizzazione della presa di coscienza di uomo che si rende conto di essere arrivato al capolinea, incapace ormai, preso dal vizio (alcolismo) e dall’amaro ricordo di un passato glorioso (è stato un grande attore), di capire cosa significhi l’amore (del resto anche Paola si consolerà presto nella sequenza dell’epilogo mentre i convitati si recano in sala da pranzo). Lo stesso vale per il luogo di lavoro di Oliver Jordan: lo spazio anche qui è un ufficio anonimo (si vedono alcuni modellini di navi ad indicare la compagnia di trasporti posseduta da Jordan) un ambiente che “racconta” già il fallimento incombente della società di trasporti. Stessa cosa si potrebbe dire per la camera da letto di Kitty, che oltre ad indicare il vizio e la lussuria, rappresenta la vita noiosa e pigra di una mantenuta. Lo spazio in Pranzo alle otto è soprattutto uno spazio psicologico atto a sottolineare le debolezze e i drammi del personaggio che lo abita. E non si può fuggire da questa marcatura fisica; nel film i prodotti dello spazio sono i personaggi, l’attante in questo caso si afferma come una fusione di personaggio-spazio, e poiché gli attori mettono in mostra la propria arte, recitando se stessi invece di interpretare eroi, lo spazio non è altri che la prosopopea di questa recitazione, un attante completo di programma narrativo al pari degli altri, ossia il palcoscenico teatrale.


 1. Edoardo Bruno, Pranzo alle otto, il Saggiatore, Milano 1994,  pag. 19

8 maggio 2015

Interstellar (Christopher Nolan, 2014). 1/3 Equazioni e tesseratti

Un tesseratto a quattro dimensioni, forse sempre lì, dall’inizio del tempo, o meglio, dell’assenza di tempo, dove immergersi  è come cadere in un grande cavo elastico che mostra ciò che vuoi vedere, perché nell’ipercubo il dentro è fuori e viceversa. Come in Flatlandia (1) gli  abitanti delle due dimensioni non possono concepire il cubo (e ogni altro solido), se non smontato in sei quadrati giacenti sul piano, così negli universi tridimensionali non è possibile concepire un tesseratto se non dispiegato nella rete degli otto cubi. Non dico niente di nuovo nel citare la stupenda opera di Salvator D’Alì, quel Corpus hypercubus, un ipercubo dispiegato nel 3D in otto cubi, simile a una croce posta dietro il Cristo crocifisso che enuncia la corrispondenza, fin troppo evidente, tra l’impossibilità per la mente umana di comprendere la struttura di un oggetto quadridimensionale e l’incapacità  di intuire lo spazio trascendentale di Dio. Pertanto per analogia, giacché siamo seduti in sala a vedere comunque un film, non è possibile comprendere servendoci di una logica prosastica o, peggio ancora, scientifica. Ovvio che le incongruenze (anche se Nolan ha cercato di legare il più possibile la fantascienza alla fisica teorica) fanno parte del gioco anche perché personalmente non ho mai creduto che un film (anche quello più fedele, anche un documentario o una ripresa di una telecamera portata per la strada in giro per il mondo a riprendere la folla dei boulevards) mostri la realtà: figuriamoci se sia possibile abbinare fedelmente un film a una teoria scientifica – e dovrebbe essere sufficiente il fatto che nel cadere in un buco nero  forse qualcosa al nostro corpo potrebbe capitare. Ma Interstellar è solo un’opera cinematografica e pure di ottima qualità, un lavoro che punta a “scombinare” le sequenze giocando con la circolarità degli eventi, nell’affermare il principio e la fine come intimamente legati. Quando Cooper , dall’interno (esterno) dell’ipercubo, vede se stesso nella biblioteca insieme a sua figlia Murphy (ma non avrebbe dovuto vedere dall’universo 5D anche gli organi interni della figlia e di se stesso?), guardando l’interno dall’esterno (o viceversa), non fa altro che porre in atto una serie di tentativi per comunicare con i viventi dell’Universo 4D  allo scopo di completare l’equazione . Non è possibile infatti per noi comprendere lo sviluppo di un cubo nelle cinque dimensioni (spazio-tempo), ma è possibile filtrare questa esperienza tramite un medium. Il film permette, e in particolare Interstellar per l’estrema incisività della propria funzione poetica, di farci intuire l’incomprensibile, mostrarci la proiezione nello spazio tempo di un tesseratto, rendere intelligibile un concetto astratto, dispiegando l’ipersolido nel Corpus hypercubus, nella rete degli otto cubi mesi a croce. In questo caso la narrazione si alimenta con una selezione operata  sulla base dell’equivalenza, una scelta fra varie infinite inquadrature che possano succedersi per equivalenza: quindi  inquadrature connesse da un certa similarità o difformità, sinonimia o antinomia. Si opera una scelta per cui il principio dell’equivalenza agisce sull’asse della selezione. Inoltre la funzione poetica proietta il principio dell’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione (2). Come nella poesia in Interstellar (almeno in alcune sequenze) ogni  immagine, inquadratura o sequenza è rapportata a tutte le altre immagini o sequenze o inquadrature non solo del film ma anche del nostro immaginario (l’intero nostro mondo di conoscenze, aspettative, proiezioni  che ci contraddistinguono). Come nella poesia si parte dall’equazione per costruire la successione e non viceversa (3). In altri termini, non sono le sequenze a formare un logos logico e coerente (o supposto tale secondo la logica dominante in una certa cultura di un certo periodo storico), ossia: orbito intorno a un buco nero e passano vent’anni (verifico che è possibile perché i fisici dimostrano, dicono che…), entro in un buco nero e non mi sbriciolo perché è immenso e Stephen Hawking sostiene che l’orizzonte degli eventi di un buco nero potrebbe essere apparente e allora... Al contrario, è il discorso (quando si fa poetico) a formulare la successione (ossia il discorso quando si fa poetico costruisce inquadrature e sequenze e le assembla per  reiterare ritmi, significati polisemici, emozioni anche contraddittorie). La funzione poetica regola e struttura il risultato come metro e impalcatura di eventi; e non viceversa. Pertanto nel  proporre un’osservazione su piani che non rientrano esplicitamente nella specificità dell’arte si rischia di ridurre la ricchezza culturale e poetica di un’opera alla stregua di un qualsiasi evento cronachistico, o trattato o asciutto articolo scientifico da rivista di alto impact factor sì, ma incapace di trasmettere emozioni.

1. Edwin Abbott Abbott, Flatlandia, Racconto fantastico a più dimensioni (1884)
2. cfr. Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale
3. Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 2002 p. 192

3 maggio 2015

Pranzo alle otto (George Cukor, 1933). Gli attori 1/3

I film della sophisticated comedy, costruiti per mostrare una trasparenza narrativa che nasconda il discorso, allo scopo di coinvolgere lo spettatore nella storia raccontata, sembrano riprodurre la realtà o per lo meno evidenziare una verosimiglianza inappuntabile. Ad esempio il leitmotiv di Pranzo alle otto è un invito a cena che impegna per tutto il giorno la sig.ra Millie Jordan nel pianificare il pranzo preoccupandosi degli inviti e nel rimpiazzare improvvise disdette da parte di alcuni importanti ospiti. Questo permette di introdurre molti personaggi che entrano ed escono di scena raccontando le loro storie: Oliver Jordan, a capo di una compagnia navale sull’orlo del fallimento; Carlotta Vance, un’ex-attrice che vive del ricordo della sua gloria passata; Paola Jordan infatuata di un uomo molto più vecchio, Larry Renault, e disposta a rinunciare al suo imminente matrimonio con il suo coetaneo fidanzato; lo stesso Larry, che vive ancora nell’illusione di essere un grande attore mentre sta naufragando, abbandonato dai produttori, dal suo agente e persino allontanato dal direttore dell’albergo perché insolvente; Kitty Packard, una bellissima donna mantenuta da un uomo che non ama, amante del Dr. Wayne Talbot, bravo dottore ma famoso “donnaiolo” amato nonostante ciò dalla sua disillusa moglie; Dan Packard, marito di Kitty, talmente preso dalla sua arroganza di grande uomo d’affari, da non accorgersi che sua moglie lo tradisce proprio con Wayne, del quale ha la massima fiducia in quanto medico dell’ipocondriaca Kitty. Le storie si intrecciano, i personaggi si raccontano, dialogano tra di loro, i loro sguardi si incrociano, si allineano o servono a raccordare una sequenza all’altra allo scopo di restituire una linearità narrativa che permetta allo spettatore di immergersi nella “realtà”.  Questa realtà mostrata, esibita, organizzata in Pranzo alle otto (come nei film della sophisticated comedy) nasconde però qualcosa che emerge lentamente alla superficie durante lo svolgersi degli eventi: un senso di disagio che coglie lo sguardo, un qualcosa che sembra interferire con la narrazione. Come sottolineato nell’omonimo saggio di Edoardo Bruno (1) nel genere “[…] regna la finzione, come se la finzione fosse un dato reale, il luogo capace di rendere di per sé credibili i comportamenti e accettabili le trasgressioni: il sorriso cela l’inganno, l’ottimismo nasconde i dubbi, le incertezze, i non sensi coprono la ferocità delle situazioni”(2). Sotto la superficie di storie apparentemente abitudinarie (affari, amanti, amicizie, ricordi, ecc.) si rivela il leitmotiv del film, ossia il senso di morte che non emerge solo nel suicidio dell’attore fallito, Larry, ma affiora attimo dopo attimo lungo tutto il récit dei vari personaggi. Questo disagio provato non si forma nella narrazione, peraltro perfetta nel proprio svolgimento grazie all’abile regia che riesce a far interagire i vari personaggi fra di loro, concentrandosi sugli esistenti e nel lasciare lo sfondo di oggetti e comparse fuori fuoco, piuttosto prende forza nella recitazione degli attori. In particolare il modo di recitare di John Barrymore, nell’esprimere il percorso psicologico del suo personaggio (da quello che sembra un affermato attore che vive in albergo e amato da una giovane donna, Paola, alla decisione apparentemente improvvisa di porre fine alla propria vita), è teatrale nel marcare la finzione, nell’intaccare la presunta trasparenza della commedia, sottolineando al contrario un’opacità che attraversa l’intero film. Questa  teatralità, “[…]divenuta forma della commedia, fa sentire ancora di più nell’accentuazione della finzione, l’attesa di qualcosa che circola impercettibilmente, il senso della morte, del suicidio, della malattia” (3). L’attore pende il sopravvento sul personaggio. Questo vale anche per gli altri grandi interpreti: da Carlotta Vance che pare uscita da un film muto, alla bellissima e affascinante Jean Harlow, qui perfetta caricatura della bella amante bionda e stupida, a Lionel Barrymore che accentua gli sbandamenti e le cadute causate da gravi problemi cardiaci. La recitazione pertanto esce allo scoperto come un deittico capace di corrompere la presunta verosimiglianza, mostrando pertanto “[…] non la «definizione sociale», ma la consistenza poetica” (4) del film.

1. Edoardo Bruno, Pranzo alle otto, il Saggiatore, Milano 1994
2. Edoardo Bruno, op. cit, p. 19
3. Ivi, p. 49
4. Ivi, p. 13

26 aprile 2015

L’amore bugiardo. Gone Girl (David Fincher, 2014)

Il ritrovamento del “manoscritto” come nell’ Ivanhoe di Walter Scott è il classico espediente per  rendere credibile la propria opera (in questo caso il diario di Amy) e pertanto  far scivolare “naturalmente” la storia fino al proprio epilogo; racconto come percorso-gioco, affabulazione, dalla superficie trasparente e quindi racconto realistico, obiettivo. Nel caso in questione si tratta di catturare l’interesse dello spettatore nel seguire la struttura narrativa ideata da Amy Elliott-Dunn. Ossia racconto fine a se stesso, diario come resoconto ideale di sintesi narrativa, espressione sintomatica di verosimiglianza . Il ritrovamento del “diario”, inoltre, permette di indicare la strada da seguire per scoprire il colpevole o per lo meno per indirizzare i sospetti su suo marito Nick Dunne. Si apre pertanto un percorso narrativo coinvolgente con indizi, indovinelli  (i bigliettini  nascosti da Amy prima di scomparire con rompicapi da decifrare), indagini. L’abbrivo sembra coinvolgere lo sguardo nel più classico dei topoi narrativi: film incentrato sulla denotazione come unica possibilità per coinvolgere lo spettatore, classico film del genere thriller. Eppure quello che sembra un banale imprevisto (Amy viene derubata nel Motel) risulta a posteriori un interessante espediente narrativo per uscire dallo stallo che sembrava contenere il film nel flusso di tanto cinema di genere infarcito di luoghi comuni. Il thriller scorre lentamente dalla denotazione alla connotazione, coagulando ipotesi, sensazioni, emozioni che tracimano dall’alveo del risaputo. Il ripensamento di Amy sembra disorientare il costrutto mentale, il gioco mostrato nella prima parte del lungometraggio. I bigliettini con indovinelli si sono arenati, in realtà non conducono da nessuna parte, la perfetta messa in scena di Amy riguardo alla sua scomparsa comincia a vacillare, la stessa detective Rhonda Boney evidenzia le incongruità degli alibi mostrati da Amy. La verità, finalmente proposta da Nick (ha un’amante, non ama Amy ed Amy stessa è un’assassina), pur rimanendo relegata nel privato (Nick, sua sorella Margo, l’avvocato Tanner Bolt, Rhonda), non serve a niente. La fiction deve prendere il sopravvento affinché il pubblico possa rimanere coinvolto, intrappolato in una personale diegesi cosparsa di aspettative e convinzioni indeclinabili: Amy è dalla parte dei buoni e ogni cosa deve gravitare intorno a lei; suo marito, nelle vesti di traditore pentito, può rientrare nel piano in quanto per troppo tempo sospettato ingiustamente di avere ucciso Amy. Il perdono come massima altezza della parabola narrativa già compresa nel mondo diegetico dello spettatore (simboleggiato non a caso dall’inarrestabile condizionamento dei media), nonché la redenzione come grande aspettativa per far esplodere le proprie emozioni latenti (seppur ricercate e non spontanee), possono pertanto trascinare la storia verso il proprio esito positivo (anche e soprattutto commerciale). Ritengo che la peculiarità del lavoro svolto da Fincher sia soprattutto mirata a smontare un percorso lineare apparentemente già espresso nell’incipit: quando Nick gioca nel bar a Business  insieme a sua sorella,  ho pensato di collegare questo indizio ai vari indizi (bigliettini lasciati da Amy) seguiti da Rhonda e da Nick, senza pensare al fatto che Business  non è un meccanismo matematico ma dipende dal caso: numeri estratti  che conducono la pedina fortuitamente in caselle con esiti positivi o negativi. Nel film i dadi vengono gettati spesso: dal diario artefatto rimasto semi-bruciato nel forno (leggibile eppure fin troppo realistico persino nei lembi delle pagine bruciacchiate), al furto subito da Amy (evento non previsto dal topos perché Amy, capace di sovrastare persone intelligenti non può sottomettersi a due balordi), al suo improvviso ripensamento causato dall’intervista tv di Duck che la induce a seguire nuove linee narrative. Da qui in poi il plot lascia cadere nel vuoto tutti gli indizi (tanto non servono a niente poiché il pubblico ha scelto sin dall’incipit) e il percorso logico con i suoi segni è stato fagocitato dalla facoltà della tv di condizionare il mondo. Non ha nessuna importanza seguire la strada dei bigliettini lasciati da Amy perché lei stessa entra in scena, ritorna con la potenza del Falso per indicare la via ad una umanità che proclama unica verità quella indicata da Amy. Tutto fallisce: i segni, i suoi stessi bigliettini, il diario. La narrazione è un falso e la ricerca della verità non rientra nei piani di chi ha già scelto. Il cinema non può che registrare gli eventi, cercando di ricostruire ogni momento degli accadimenti.  La narrazione pertanto si rifugia nell’extradiegetico, nelle scritte che appaiono sullo schermo non tanto per organizzare cronologicamente una storia (il film è già strutturato in modo da essere seguito anche senza le didascalie che scandiscono il tempo), quanto per ancorare la forza dell’arte al suo stesso script che emerge allo scoperto come unico momento di  verità. Il percorso seguito infatti dall’incipit (5 luglio: quel mattino; un giorno dopo; due giorni dopo; tre giorni dopo; ecc.) registra il tempo che scorre (quello diegetico) mentre le didascalie si mostrano sia come ulteriori chiarimenti di ellissi evidenti (ma in senso narrativo non ce ne sarebbe stato bisogno) quanto come affermazione dello script stesso sulla storia quasi ad attestare che il cinema non può raccontare storie vere (sebbene Gone girl riprenda una storia realmente accaduta) ma solo mostrare la propria interiore autenticità come ricerca incessante e mai sazia di conoscenza.

9 settembre 2014

Across the Universe (Julie Taymor, 2007)

Spazio e tempo. Liverpool vs Princeton-New York; ossia le mura del quartiere operaio salgono in alto, le gru e le navi del cantiere inquadrate dal basso, i vialetti, i miseri giardinetti dei vicoli si restringono accostandosi a Jude che cammina per recarsi al cantiere navale; vedi al contrario i grandi spazi di Princeton, l’Università con i giardini, il campo di rugby, i parchi-bosco, persino le inquadrature di New York con i grattacieli distanti  inquadrati per evidenziare l’ampiezza delle piazze e delle vie e le strade di Brooklyn. La verticalizzazione di una città prettamente orizzontale qual è Liverpool opposta al respiro orizzontale di un paese immaginato come verticale. La claustrofobia opposta all’agarofobia assecondate dai virtuosismi e dagli arrangiamenti metaforici della musica dei Beatles, unica scelta per “rappresentare” un’epoca, un simbolo, un mito. Questo per dimostrare che non siamo seduti a “osservare” la Storia, ma solo una storia (la storia d’amore tra Jude e  Lucy), siamo seduti a vedere un musical, genere in cui la musica domina sul dialogo e che particolarmente in Across the Univers si sostituisce pressoché al dialogo amplificando il senso delle parole delle canzoni dei Beatles. Il musical cresce immagine dopo immagine, sequenza dopo sequenza, atto a ristabilire il senso storico di eventi cristallizzati nel tempo evocati per dispute sul “bisogno” di guerra o sulla forza pregnante di un pacifismo ormai sbiadito. Il musical suscita la percezione di un’epoca per concentrasi sull’oggi. Across the Univers gioca con gli anni sessanta per fare riflettere sulla debolezza tangibile di un oggi abituato a digerire guerra dopo guerra, genocidio dopo genocidio, persino l’indignazione e lo stupore: scandalo dopo scandalo la routine ha annichilito le coscienze.

C’erano una volta i Beatles. Questa splendida musica è rielaborata e trasformata non per adattare il senso di un’epoca ai bisogni dell’oggi ma per recuperare un’atmosfera, un sapore perduti, allo scopo di disarticolare l’idea che ci siamo fatti di anni lontani (mitici, ma scoloriti, dimenticati) dalla certezza storica di un accaduto irripetibile: il Vietnam, le manifestazioni pacifiste, le marce, i sit inn, la polizia violenta come descritta in Fragole e sangue di Stuart Hagmann, le pantere nere, la guarda nazionale. Eppure tutto ciò accade ancora oggi e forse più spesso. È assente caso mai il senso di una appartenenza. La disgregazione ha avuto il suo effetto e per questo l’unica sola musica dei Beatles (33 brani), rivisitata dagli arrangiamenti di Elliot Goldenthal, comprende il rock and roll degli anni settanta, da Bob Dylan ai Jefferson Airplane, ai Doors; tutto ciò per suscitare il senso della musica dell’epoca. Ad esempio Let it be cantata come un gospel evidenzia la metamorfosi di una musica che non era quella (la melodia originale) ma che comprende tutta la musica dell’epoca, la elabora, ne diviene simbolo, restituendo in pieno l’atmosfera di quegli anni.

Attraverso l’universo. “Limitless undying love which shines around me like a million suns/It calls me on and on across the universe […]Nothing's gonna change my world” (1). Questa musica, queste immagini, le animazioni, il sound psichedelico, i colori “negativi” del viaggio che debordano dai contorni delle forme per acquisire un loro status, ogni cosa attraversa l’universo per farci ascoltare questa radiazione di fondo, questo suono labile proveniente dal nostro passato per ricordarci che niente dovrà cambiare il “nostro mondo” neppure le immagini e le sequenze costruite solo per appagare la mente: illudere anziché eludere (2), elidere invece di esimere (3). In altri termini si tratta di attraversare il film, testo-universo che descrive un mondo immaginario, paradigmatico, in grado di strutturare un senso. Si tratta di immedesimarsi nel contesto riconoscendo la musica dei Beatles come unica musica ascoltata all’epoca non perché i Beatles rappresentino da soli un periodo irripetibile. Secondo i miei gusti personali le band e i musicisti che hanno segnato un’epoca sono numerosi (e Julie Taymor lo sa benissimo dimostrandolo con i camei di Joe Cocker e Bono) eppure gli arrangiamenti di Goldenthal “trasformano” pezzi famosi rilasciandoli nell’humus storico, nell’eco giunta fino a noi tramite letture e/o ricordi, consegnando uno spaccato dell’America (e in parte dell’Inghilterra) di quegli anni.

(1)   Amore senza fine né limiti mi splende intorno come un milione di soli/ Mi chiama ancora e ancora per tutto l'universo […] Niente cambierà il mio mondo”.
(2)    Mi riferisco a un certo tipo di cinema post-classico che vuole sempre e comunque essere trasparente per illudere di vivere una storia anziché di limitarsi a evidenziare almeno che sta in realtà prendendosi gioco dello spettatore.
(3)    Un cinema che cerca di annullare la coscienza mentre dovrebbe liberare lo sguardo dall’obbligo di comprendere a ogni costo tutte le invenzioni raccontate.